In vista delle vacanze estive, a chi ama la lettura “LucidaMente” dedica, in questo numero di agosto, un racconto inedito della scrittrice ferrarese Antonella Chinaglia
Estate: per molti la parola d’ordine è “vacanze”, per altri, che magari continuano a lavorare, o per chi resta in città, è comunque tempo di allentare i ritmi e dedicarsi agli hobby che, durante l’anno, vengono trascurati. LucidaMente propone agli amanti della lettura il racconto di una scrittrice esordiente, la ferrarese Antonella Chinaglia. Incentrato sul valore dell’amicizia, con le sue descrizioni minuziose il brano che segue cattura l’attenzione e sorprende nel finale.
Iniziò a sfilarsi i guanti di gomma con il suo abituale gesto, frutto di rodata pratica al lavello, prendendo con la sinistra la punta delle quattro dita della mano destra e tirando un poco sino a sfilare il pollice, poi afferrando con la destra infagottata dal guanto le quattro dita sulla mano sinistra in modo da rimanere con le dieci dita di gomma a penzoloni. Per chinarsi sul piccolo acquario si girò verso la credenza. Naso attaccato al vetro, alzò le braccia e i gomiti, portò i polsi all’altezza del collo e mosse i guanti ancora bagnati a mo’ di pinne. Come sempre qualche gocciolina d’acqua saltò sulle lenti degli occhiali. Faceva parte del gioco e ne rise. Riscontrò la conferma alla sua conclusione – È vero, Arancino, sono tutte sciocchezze!? – nel concordante movimento del pesciolino. Vinto alla festa del patrono ben quattordici anni prima, soltanto il nome ricordava il pesciolino rotondetto e color arancio che era stato, essendosi allungato e avendo assunto l’intero suo corpo un colore giallo pallido, in cui spiccavano pinne e coda rimaste d’un arancione vivido. Soltanto a casa aveva avuto il tempo di riflettere, lavando piatti, pentole e posate. Si sedette; pensò di pulire gli occhiali, ma non lo fece.
Durante l’intera mattinata di lavoro quelle righe lette sul quotidiano le erano sembrate onde increspate, rese di ora in ora più alte e minacciose dai venti della sua emotività. Sorpresa, timore e aspettativa la sfiancavano, motivo per cui al bar, a differenza di altri avventori, mentre faceva colazione evitava di soffermarsi su quel rettangolo, ritenendo di essere in grado di vivere le proprie giornate pronta ad affrontarle senza predizioni, piacevoli o nefaste che potessero apparire.
Che la giornata si sarebbe rivelata segnata dall’inquietudine ne ebbe sentore quando, impegnata nella veloce lettura, le palpebre, nonostante fossero abbassate come di consueto sulle pagine di cultura e spettacoli, rimasero d’un tratto spalancate. In pochi secondi le pupille bloccate a contemplare lo spazio da sempre riservato ai trafiletti sugli incontri in biblioteca spedirono al suo cervello il contenuto di quei rettangoli. Non avrebbero dovuto trovarsi lì! – quasi fossero grossi rami spezzati rovinati in mezzo alla strada visti all’ultimo momento da un automobilista lanciato a tutta velocità – gridò a se stessa un attimo dopo averne letti alcuni, continuando, meccanicamente, a masticare la brioche e a sollevare la tazzina.
Si era dispiaciuta, innanzi tutto, che non ve ne fosse uno al cento per cento ottimista, almeno tra quelli caduti sotto i suoi occhi, oltre che per aver memorizzato, senza volerlo, dei brandelli di testo. Recandosi al lavoro, li aveva ripetuti a voce alta – «Semplificate il lavoro della giornata migliorando l’organizzazione. Non siete in grado di affrontare delle fatiche troppo pesanti. State per perdere un utile affetto e non avrete nessuno con cui sfogarvi» – e si era confessata, sbirciandosi nello specchietto retrovisore: non si era voluta sincerare se si trattasse del futuro prossimo di un’altra persona oppure del proprio poiché non voleva credere, proprio temendo fosse veritiero, che “saetta prevista venga più lenta”. Un concetto in cui, al contrario, sembrava confidare una sua vecchia amica.
Nel piazzale antistante la scuola elementare frequentata dai figli si erano scambiate ricette, pareri e consigli standosene ognuna seduta sul sellino della propria bicicletta. Per anni avrebbero dimenticato l’esistenza l’una dell’altra se qualche fotografia non avesse risvegliato ricordi di festicciole di carnevale, o se in piscina la necessità di spiccioli, per attivare il getto d’aria calda indispensabile ai capelli dei ragazzini, non le avesse fatte alzare dalle panche. Avevano celebrato casuali e sporadici incontri nelle vie del centro, scendendo dalle bici con le quali sfrecciavano sempre di fretta, per concedersi un caffè e aggiornarsi sui progressi dei figli, riconoscendosi amiche decennio dopo decennio. Pur abitando e lavorando nella medesima provincia, non si erano frequentate, ma si erano ritrovate senza cercarsi: era bastato un imprevedibile quanto necessario cambio d’orario richiesto da una collega per fare in modo che Ada si ritrovasse dinanzi Rita.
Ada, passando i prodotti sotto lo scanner, aveva sottolineato, atteggiandosi in un comico broncio infantile, che da mesi non si vedevano, e Rita, una volta ricevuto il resto, aveva steso lo scontrino sul rullo dicendole: «A far spesa qui vengo di rado e quando ho visto la tua coda di cavallo, mi sono detta: “Quella cassiera mi sembra proprio di conoscerla”… Scrivimi qui il tuo numero di cellulare, non ricordo d’averlo, ti mando un messaggio». Si erano date appuntamento per il martedì pomeriggio successivo.
Sedute al tavolino della distesa esterna e deserta di un locale a serrande abbassate, avevano conversato, si erano riscoperte, avevano rintracciato concordanze di pensiero, recuperato sogni, scoperto di aver visitato le stesse mostre, tanto che Ada non soltanto aveva messo al corrente l’amica di alcuni progetti, ma le aveva anche prospettato una collaborazione. Ada, addetta alle vendite di un ipermercato, lavorava a tempo pieno, tuttavia si dedicava con passione e dedizione alla scrittura, pertanto Rita, se da una parte si era sentita piacevolmente coinvolta dalla proposta di illustrare alcuni racconti e di firmare pure la copertina dell’eventuale pubblicazione dell’amica – «Alcuni tuoi disegni andrebbero benissimo… È ora di valorizzarti, da disegnatore tecnico quale sei!» –, dall’altra aveva reputato imprudente che si imbarcasse nella frequentazione di quel corso di scrittura creativa. Nonostante l’ammirazione per l’intraprendenza dell’amica, reputava rischioso recarsi a quegli incontri che si sarebbero tenuti per tre mesi al lunedì sera a quasi sessanta chilometri di distanza.
L’aveva definita “amica” nelle proprie riflessioni. Le ritornò alle labbra quel «state per perdere un affetto». Rita si sentì percorrere da un brivido, raggelare gli arti. «Ma no, ma no! Non esageriamo, eh, che parola grossa! Non ci lega un sentimento d’affetto, piuttosto direi che siamo semplici conoscenti di lunga data!» esclamò alzandosi a fatica per prepararsi del tè bollente. I visi di familiari, amici, parenti, colleghi d’ufficio le sfrecciavano sulle autostrade della memoria in una sequenza di flash accecanti uno dietro l’altro in accelerazione continua, quasi gareggiassero con i battiti del suo cuore, e le loro voci rumoreggiavano all’interno delle sue orecchie emergendo nella sua testa tutte quante, una accalcandosi all’altra, in acute fitte.
Tremandole le dita, gelide per il panico di cui si percepiva preda, la sua tazza preferita, ereditata dalla cara nonna materna, le sfuggì, frantumandosi a terra. Si risedette. Si sentiva svenire, sebbene al tempo stesso sollevata. «Eccolo, l’utile affetto perduto! Eccolo, vedi, eccolo!» gridava, indicando il pavimento al pesciolino e rimanendo a fissare i cocci. Si ricompose non appena l’accostarsi del cancello le comunicò l’arrivo del marito. Riscaldò in fretta qualcosa per cena. A tavola non portò il cellulare; preferì sistemarlo in carica sul bracciolo del divano. Non aveva il coraggio di leggere i messaggi. Poi si rintanò in poltrona. I programmi televisivi cullarono la spossatezza di entrambi. Urla e risate la risvegliarono dal torpore; stoppò l’audio pensando provenissero dal televisore, giungevano invece dalla strada. Si accorgeva, minuto dopo minuto, e con sollievo, che il russare regolare e pacifico al suo fianco, simile al calmo e ipnotico sciabordio di onde contro gli scogli, l’aveva liberata dallo stato d’ansia.
Come se quelle maledette righe non fossero state né lette, né scritte, decise che era il momento di affrontare il finale del giorno. Uscì dalla posizione sicura sulla poltrona per raggiungere quella di combattimento. In ginocchio, nell’angolo del divano. Quasi avesse avuto l’intenzione di pregare. Alzò lo sguardo. La tenda scostata dal vetro le lasciava ammirare il brillio di stelle nel cielo primaverile. Si accorse dei piccoli aloni circolari lasciati dalle goccioline d’acqua sulle lenti degli occhiali. Li levò. Li pulì con il grembiule che ancora indossava. Lo schermo del cellulare, appena sfiorato, s’illuminò. Al messaggio con cui Ada, due ore prima, la informava di essere in partenza, rispose con un «Ok. Non perderti, ciao!». Rita sorrideva ripensando alle ore pomeridiane trascorse in sua compagnia il giorno prima. Esilarante il resoconto fattole da Ada sulle proprie rocambolesche peripezie al volante, nonostante adesso ne ricordasse certi dettagli con trepidazione.
Ada era andata quel mattino domenicale a fare un sopralluogo: aveva imboccato la strada statale; aveva raggiunto la stazione ferroviaria della città sconosciuta e semideserta per la giornata festiva e, seguendo i cartelli stradali, aveva tentato di arrivare alla sede in cui si sarebbe tenuto il corso nella serata del giorno successivo. Rita s’immaginava Ada, osservata con gli occhi di quel lavavetri che l’aveva vista per ben tre volte passargli davanti al semaforo; oppure inquadrata nel fermo immagine dei monitor della vigilanza, sulla sua autovettura rossa considerata con sospetto per essere transitata troppe volte dinanzi alle telecamere delle banche; e se la figurava spazientita a girare in tondo, come in giostra, nelle rotatorie alla ricerca dell’uscita esatta, o con quell’espressione esterrefatta, tipica sua, quando si era accorta di aver imboccato la corsia riservata agli autobus.
Ada si era autodefinita imbranata per non aver saputo impostare il navigatore, si era sentita impacciata percorrendo strade non abituali, si considerava maldestra per essersi persa, come aveva poi desunto, a soli due chilometri dalla meta, e goffa per aver sostato in seconda fila qualche minuto in modo da capire dove si trovasse, guadagnandosi da parte di un anziano ciclista una sfilza di improperi in un dialetto a lei incomprensibile, ma non si era data per vinta. «Devo procurarmi la pianta di quella megalopoli!» aveva concluso Ada.
Dopo essere state in libreria si erano salutate nel tardo pomeriggio, soltanto quando Ada, trionfante, stringeva la carta generale di quell’area urbana in scala 1:125000, mentre Rita, preoccupata, le rammentava che, essendo un centimetro uguale a 125 metri, avrebbe dovuto, quando fosse arrivata nei pressi dell’indirizzo, procedere a passo d’uomo. Ada le aveva risposto beffarda: «Beh, grazie del valido consiglio… In auto a passo di donna con tacco dodici mi sarebbe difficile!». Qualsiasi rumore proveniente dall’esterno si trasformò nel traffico serale in cui Rita immaginava immersa l’amica. L’ovattato silenzio della casa divenne nel suo dormiveglia quello di un abitacolo e il continuo russare quello di un motore. Le sembrava di accompagnare Ada giunta nella “megalopoli” alle prese con la circonvallazione, di essere seduta al suo fianco a indicarle come imboccare le strade a tripla corsia, l’aggiramento delle porte della città, i sensi unici, l’individuazione della via, il parcheggio, senza rendersi conto del tempo trascorso.
Infatti, mentre Rita in quello stato di spossatezza nervosa si assopiva in una scomoda posizione fetale appoggiata allo schienale del divano, Ada stava percorrendo la strada del rientro. Cielo sereno, poco traffico. Procedeva con calma, rispettando i limiti di velocità nonché la distanza di sicurezza grazie alla quale, all’andata, aveva potuto frenare per lasciar spazio di manovra. Una sciagurata auto grigia, piombata alle sue spalle come un bolide da circuito, dopo averla sorpassata nel rettilineo, non era riuscita a tenere la strada all’improvviso apparire della freccia a sinistra dell’auto a pochi metri dinanzi a loro, tanto da dover sterzare a destra esibendosi in uno slalom sul pietrisco del ciglio della strada per non rotolare giù dall’argine.
Mentre osservava il cristallo reso opaco agli angoli dal polverone sollevato – Domani autolavaggio, programmava –, Ada, rilassata e vigile, transitava sulla statale ripassando e riassaporando quanto ascoltato. Vedeva arrivare dall’orizzonte piccole luci, nel buio i fari confondersi con le stelle. Indovinava la presenza di doppie curve dall’avvicinarsi della serpentina luminosa. In una frazione di secondo tonnellate ad alta velocità le scorrevano di fianco. Rita, con la sua capacità di misurare il mondo mutuata dalla sua professione, le avrebbe saputo persino dire a quale distanza fosse previsto che transitassero. Ada si percepiva ancora affascinata dal potere della linea di mezzeria come lo era stata da neopatentata trent’anni prima: una convenzione, un accordo per delimitare i sensi di marcia sancito dal codice della strada, accettato e rispettato dagli automobilisti. Vagava con la mente guidata dalla segnaletica stradale orizzontale: «Circolazione e comunicazione, due codici scaturiti da comuni intenti di civile convivenza!» tuonò la sua voce nell’auto parodiando se stessa entusiasta per la serata.
Asfalto nero, strisce bianche. Cambio di luci per non abbagliare il conducente sulla corsia opposta. Procedeva metodica e attenta tanto da notare in lontananza due piccolissime stelle in movimento poste più in alto degli altri brillii. Sapeva di trovarsi all’altezza di una doppia serie di curve pericolose, tuttavia avvertiva il procedere rettilineo di quelle due luci. Tagliavano le curve, quelle due stelle allineate. Ada si sentiva inquieta.
Un parallelepipedo chiaro, lungo, enorme, baluginò alla luce dei fari di un mezzo sbucato da una laterale. Un camion: non differente da altri che aveva incrociato all’andata e della stazza di tanti che erano transitati fino ad allora, alternandosi alle automobili, a velocità sostenuta alla sua sinistra, regalandole la spiacevole sensazione che la sua auto venisse catapultata chissà dove, inghiottita dal nero attorno, a causa dello spostamento d’aria. Tuttavia, Ada sudava. Il camion bianco stava arrivando silenzioso, veloce, come uno squalo, pensò. Le si riproponeva la metafora dello squalo. L’aveva utilizzata di recente nella e-mail a un’amica di penna a proposito della voracità, indiscriminata, spietata, di alcune persone verso altre. Entusiasmo, partecipazione, idee, divorati da una famelica e atavica ignoranza. Ricordare di aver sottolineato, sempre a rigor di metafora, che in fin dei conti qualcuno avesse dimenticato di essere, come tutti, un pesce gatto mantenuto in vita insieme agli altri in una bacinella d’acqua dolce, in attesa d’essere scelto e colpito sul cranio dal martelletto del pescivendolo per finire in pentola con pomodoro e basilico, non le giovava. Anzi, Ada boccheggiava.
Le mancava l’aria, provava nausea. Malgrado a basso volume, la replica della trasmissione radiofonica parve rimbombarle nella testa. Sebbene a fatica, riuscì a fare una lieve pressione sul tasto. Il silenzio prese il posto delle parole e a lei sembrò di avere meno ossigeno a disposizione. Anche i semplici pesci rossi, in apparenza innocui, miti e pacifici, se ben alimentati e curati, potevano crescere, arrivare a pesare chili e mostrarsi grandi, grossi, aggressivi nei confronti di altri più piccoli. Aveva avuto modo di riflettere: preferiva macinare distanze in auto; forse, una buona scelta concorde al suo scrivere a volte giudicato chilometrico.
Nonostante fosse madida di sudore, le venne da sorridere ripensando a quanto le fosse costato essersi astenuta dal parlare di pesci con Rita, da anni affezionata al suo amico di pinna, Arancino. Soltanto al pensiero dei progetti condivisi riacquisì energia: ritrovò la forza di far leva con la mano sinistra sul tasto posizionato nella portella per far scendere il finestrino. Odore di fumi di scappamento, indistinguibili rumori e umida aria notturna inondarono l’abitacolo. Ada prendeva larghe boccate d’aria buttandola fuori dal naso; inspirava ed espirava come nuotasse, quasi dovesse immergersi. E, intanto, frenava. Lampeggiava con gli abbaglianti e frenava. Lampeggiava e accostava, sempre più verso il margine destro della propria carreggiata. Sentiva il proprio cuore rallentare, frenare il battito, sospendere il movimento vitale, fermarsi. Questo squalo, Ada lo sapeva, simile a molti altri che soprassedevano al comune intento, non avrebbe rispettato il limite invalicabile della striscia di mezzeria. Si era preannunciato, là in fondo. Nel suo stile di guida era scritto il suo ipotizzabile, supponibile, prevedibile comportamento. Ada l’aveva letto nel suo avvicinarsi.
Rimase in apnea, aspettandolo. Interminabili secondi per quella saetta prevista, pertanto ancor più lenta nel conficcarsi al centro della sua crescente paura. Nel giro di pochi minuti avrebbe visto saltare i sassi ovunque se al posto di quella demarcazione fosse stato eretto un muretto a secco, ma quella doppia linea, dal biancore immacolato sul nero dell’asfalto, era disegnata. Le riportava il pensiero all’amica. Ada si percepiva come la caricatura di se stessa disegnata con il gesso bianco su una lavagna, tanto ben riuscita quanto pronta a essere cancellata per lasciar spazio ad altro: pensò alla figlia, per la quale aveva voluto una vita piena di autonomia, e al compagno alle prese con l’ennesimo concorso; pensò alle colleghe e alle amiche; pensò a Rita, ai loro progetti e, senza scampo, la sua immaginazione corse a tutti quei testi nel cassetto, alcuni dei quali sarebbero rimasti incompiuti.
Si impose di non chiudere gli occhi. Era ferma, avrebbe potuto farlo. Lo voleva guardare bene. Non le interessava la targa, nemmeno chi fosse alla guida, desiderava soltanto vederlo passare, riuscendo a sbraitargli sul muso: «Tanto mastodontico, quanto microcefalo!». In quegli attimi, parole, semplici parole grazie alle quali si sarebbe sentita invulnerabile. Lo fece, urlando la frase, una, due, tre, quattro, molte volte fintanto che, osservando nello specchietto retrovisore, alle sue spalle lo vide rimpicciolirsi. Lo valutò – altro non sei che un’argentea corta aringa divorata dall’oscurità della cavea mondana –. E intanto rideva, sino alle lacrime, non comprendendo se fosse per scaricare la tensione oppure per la consapevolezza di essere riuscita a giocare con le amate parole anche in un momento così drammatico. «Maledette parole salvifiche!» gridò alle presenze che percepiva nel buio.
Un colpo di clacson la riportò completamente in sé. Cercò a tastoni sul sedile del passeggero la penna che avrebbe dovuto essere agganciata alla cartellina, non trovandola. Allora si ripeté sottovoce le frasi e s’impose di non dimenticare, nonostante lo shock subito, quella situazione quasi surreale cui doveva il suo calembour dell’aringa. Aveva smesso di sudare e respirava normalmente.
Arrivata, appena parcheggiata l’auto, spedì a Linda, l’amica di penna, un entusiastico «Vale lapena di farsi i km!» e a Rita il messaggio «Tutto ok», unito all’icona del tiro al bersaglio con la freccetta conficcata nel centro. Prima di scendere, Ada accese la luce nell’abitacolo per raccogliere il marsupio, i giornali e il resto, verificando se mancasse davvero all’appello la sua stilografica preferita con cui aveva preso appunti. Poco prima aveva immaginato fosse finita sotto al sedile, invece doveva esserle caduta tra l’aula e l’auto. Rimandò all’indomani l’intenzione di farlo presente all’amica dicendosi: Rita non ci crede… eppure il mio per oggi diceva che avrei perduto un utile affetto e ci ha preso!, mentre entrava in casa sbadigliando e al tempo stesso facendosi un appunto mentale su qualcosa da scrivere riguardo l’andare “sopra le righe” nei fatti e a parole. Dal punto di vista del camion, di un musicista compositore o di qualcuno che parli a sproposito… l’avrebbe deciso in seguito.
Al segnale di notifica del messaggio Rita sussultò, ma le bastò un’occhiata per sentirsi rinfrancata: Ada era sana e salva. Le rispose con un semplice «Grande!». Poi, sgranchendosi le gambe anchilosate, raggiante, si affacciò sulla porta della cucina, «Tutto bene, sai, ce l’ha fatta! Lo dicevamo noi, eh, che sono tutte ciance!» esclamò senza accendere la luce. E senza accorgersi che il suo Arancino galleggiava ventre all’aria.
Antonella Chinaglia
Le immagini: creazioni della stessa scrittrice.
(LucidaMente, anno XI, n. 128, agosto 2016, editing e formattazione del testo a cura di Antonella Colella)
Ai Lettori. Spero Vi sia gradito leggere in calce al mio racconto ‘Arancino’ quanto segue:
“Ferrara, 14 Marzo-30 Maggio 2016
Ringrazio
Rita M., il suo Rosso, e Linda M.
per l’affettuoso affiancamento durante questi mesi”
Alla redazione di LucidaMente, un sentito ringraziamento per l’opportunità offerta.
Buona lettura e buon lavoro
da Antonella Chinaglia
Complimenti Antonella, il tuo racconto è stato davvero una piacevolissima sorpresa!!! Scritto bene, scorrevole, descrittivo, immediato, veramente godibile.
Complimenti, i tuoi racconti prendono sempre dall’inizio alla fine!!!
È come se fossi presente al racconto lì con te… ti prende e vuoi arrivare alla fine per vedere cosa succederà. Con molta fantasia hai saputo illustrare alcuni momenti significativi. Mi è piaciuto.
Come sempre, riesci a comporre racconti con un significato che sembra scontato ma non lo è mai… bellissimo, scorrevole e affascinante! Grazie davvero!
Grazie, miei cari Lettori!
Tengo a precisare che, oltre ad essere graditi gli apprezzamenti, sono ben viste anche le critiche e le domande.
A presto
Antonella Chinaglia
Complimenti davvero! Stile ricercato, mantiene la tensione, c’è ironia, molto bello 🙂
Che sapesse scrivere, già sapevo. Racconti innovativi, quando non sperimentali, premiati singolarmente prima ancora di essere raccolti e pubblicati, poi, misurarsi con altre sfide. Eppure questo regalo estivo, più che una tranquilla conferma, è una sorpresa. Scuote, risveglia, avvince ed emoziona. La cura massima dell’espressione è rispetto massimo per il lettore. Bello da leggere e da rileggere.
Complimenti racchiude un significato profondo, coinvolgendo bene il lettore fino a fine del racconto.
…Un racconto non privo di Fantasia, in cui, come raramente mi accade, immedesimarsi viene spontaneo… complimenti davvero… in Estate occorrono letture di scorrevole lettura.
Molto bello. Una narrazione puntuale che regala una sensazione quasi cinematografica; come se il lettore fosse parte della narrazione. Uno spettatore diretto. Complimenti!
Complimenti! Una bella storia di donne, di amicizia e non manca la giusta suspence che ti fa rimanere lì dall’inizio alla fine…
Mi avevano parlato bene di questa scrittrice… Molto bello, simpatico e ironico. Brava!
Bello e coinvolgente, scorrevole lettura e ottima suspence. Brava Anto Complimenti!!!!!
Complimenti: è la prima volta che leggo un tuo racconto, davvero bello e coinvolgente
Apprezzo sempre molto chi ha padronanza e conoscenza del linguaggio e delle parole, passione e amore per lo “scrivere” ormai quasi dimenticate. I miei complimenti anche per l’ironia che pervade tutto il racconto.
Racconto, particolare e coinvolgente. Complimenti, Antonella.
Anto!!! Ma che brava!!! Ti ho letto con grande piacere e curiosità!
Un originale racconto dove un sentimento importante come l’amicizia
viene soddisfatto in egual misura sia da una donna con comuni intressi che da una creatura
che non legge, non scrive, ma che con la sua semplice silenziosa presenza fa
sentire tanto vuoto sul finale. Complimenti alla scrittrice!
Veramente bello, mi è piaciuto molto, si legge tutto d’un fiato, scorrevole, scritto molto bene… un’artista… che non mi aspettavo!
Finalmente abbiamo scoperto chi è Elena Ferrante.
Ciao Antonella, finalmente sono riuscita a leggere “Arancino” e devo farti i miei complimenti. Mi piace leggere e proprio alcuni giorni fa ho iniziato a leggere un libro della Ferrante e, credimi, il tuo è meglio.
Il racconto contiene molti elementi autobiografici, ma l’autrice non ha alcun bisogno di frequentare un corso di scrittura!
Piacevole e scorrevole da leggere, cattura l’attenzione del lettore creando una certa suspense, e poi Antonella ha uno stile che crea empatia con lo “spettatore” (ti si materializzano davanti olograficamente tutte quelle situazioni poste nel racconto), prestando alla sua attenzione tutti quei dettagli che lo rendono reale e identificabile con il nostro vissuto personale.
Bravissima Anto!
Bello e coinvolgente, racconto scorrevole che non annoia mai. Complimenti davvero!