Il terrore di ricevere una possibile diagnosi di tumore può motivare la decisione di un trattamento preventivo di natura invasiva?
Grazie alla diffusione della cultura della prevenzione e ai progressi terapeutici il malato di tumore non è più un condannato a morte. È noto che un terzo dei tumori più comuni può essere prevenuto incoraggiando corretti stili di vita, che agire tempestivamente con la diagnosi precoce mediante controlli medici periodici aumenta le probabilità di essere efficacemente curati e che gli sviluppi della terapia oncologica, come la recente introduzione di farmaci a bersaglio molecolare, hanno incrementato il livello di sopravvivenza dalla diagnosi. A fronte di tutto ciò, come spieghiamo oggi la scelta da parte di un soggetto sano di affidarsi alla chirurgia preventiva? Contro cosa lotta chi vive nell’attesa dell’insorgenza del “brutto male”?
In My medical choice, lettera pubblicata sul New York Times il 14 maggio scorso, Angelina Jolie rende pubblica la scelta della doppia mastectomia per scongiurare l’87% di rischio di contrarre il cancro al seno e diventa testimonial di una campagna di chirurgia preventiva che fa subito discutere, specialisti e non, sull’importanza della prevenzione focalizzando l’attenzione sui test genetici. L’appello della star, diretto soprattutto a tutte quelle donne che per motivi ereditari rischiano più di altre di sviluppare un tumore mammario, si riflette sull’opinione pubblica come un tornado, tanto da essere definito Effetto Jolie. Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, un manager londinese di 53 anni si sottopone per la prima volta nella storia della medicina all’asportazione della prostata perché portatore di un gene alterato.
Possiamo annoverare i test genetici all’interno degli sviluppi della terapia oncologica? Sicuramente l’attrice hollywoodiana introduce all’opinione pubblica un nuovo approccio, quello di medicina preventiva o di preavviso, che, a fronte di una fragilità o di un difetto di un individuo vuole prevenire l’insorgere di una malattia mediante la valutazione di un profilo di rischio individuale. Quest’approccio predittivo costituisce un’evoluzione nel campo della prevenzione soprattutto in termini culturali: la malattia si legge come interazione tra patrimonio genetico – circa il 33% – e i fattori ambientali (per il 66%). D’altro canto, però, si deve aggiungere che i test non assicurano la certezza di ammalarsi: l’asportazione è una pratica gravemente mutilante sul piano fisico e psicologico.
In Italia, se individuato dallo specialista il sospetto di un’ereditarietà, il test genetico costa tra 1.500 e 1.800 euro ed è coperto dal servizio sanitario nazionale. Eventuali interventi medico-chirurgici sono a carico dei soggetti interessati. Secondo il Piano nazionale della prevenzione 2010-2012 (Pnp), «allo stato attuale la sede più appropriata per la gestione della sola medicina predittiva legata alla genetica appare essere quella del rapporto individuale medico-persona». Ciò significa che, in caso di test positivo, il supporto nella scelta del percorso medico da intraprendere risiede nel rapporto di fiducia tra il medico e il pre-paziente. Inoltre nel Pnp si pone il problema dei costi: «L’intervento conseguente al test di medicina predittiva e il follow-up dovrebbero essere accessibili a tutti; all’utenza dovrebbe essere assicurata una scelta informata (anche in termini di comprensione delle potenzialità d’intervento) e la disponibilità di servizi di counselling».
Nella sua applicazione pratica quest’approccio predittivo non valuta tutte quelle conseguenze sociali e psicologiche alle quali inevitabilmente si sottopone il pre-paziente che vive nell’attesa di ammalarsi. Purtroppo non esiste ancora una cura che conduca alla guarigione completa dal cancro; considerare questo rende più semplice comprendere una comunità medico-scientifica che non può indicare un unico iter diagnostico terapeutico assistenziale (Pdta). Dal lato del singolo individuo si condivide pienamente la scelta di chi come Angelina Jolie, a fronte di vissuti personali negativi (la madre morta all’età di 56 anni dopo dieci anni di lotta contro il carcinoma alle ovaie), non trova la forza per affrontare un’eventuale diagnosi di tumore e sceglie di ricorrere a interventi invasivi come la mutilazione di una parte del proprio corpo. La chirurgia preventiva può apparire una soluzione totale ma, se si ragiona in termini percentuali, rimane tuttavia una piccolissima percentuale di rischio.
Le immagini: Angelina Jolie (foto di Stefan Servos) e due loghi.
Rossana Messana
(LucidaMente, anno VIII, n. 90, giugno 2013)