Parliamo della riforma Gelmini e dei movimenti studenteschi con Maria Turchetto, ricercatrice e docente di Epistemologia delle scienze sociali all’Università Ca’ Foscari di Venezia, oltre che direttrice de L’Ateo, il periodico dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. Le poniamo una serie di interrogativi, ai quali lei risponde senza tanti peli sulla lingua…
Iniziamo con una domanda molto diretta: come insegnante universitaria, qual è il suo parere riguardo alla riforma Gelmini?
«Riforma è una parola troppo grossa per una legge che, per l’essenziale – come molti decreti successivi alle leggi del 1989 (autonomia universitaria) e soprattutto del 1999 (3+2, lauree triennali e bienni di specializzazione) – si limita a tagliare, accorpare, rimescolare l’esistente, con l’intento apparentemente virtuoso di potare l’eccesso di “offerta formativa” seguita a tali riforme. In realtà questa legge porta avanti una logica di sostanziale impoverimento dell’università pubblica – che temo vada decisamente nella direzione del suo smantellamento, se devo giudicare dall’esempio della scuola pubblica, investita da questa logica da più tempo. In Italia l’università pubblica sta davvero morendo, di fame e di vecchiaia: di fame, per i tagli; di vecchiaia, per i tanti mancati concorsi e per il perverso funzionamento dei concorsi che ci sono stati. Ne hanno la colpa congiuntamente i governi (dei più vari colori) e la proterva corporazione dei baroni».
Alcune novità introdotte sembrerebbero però favorire la meritocrazia, ad esempio il divieto di chiamata di docenti con certi gradi di parentela e la valutazione dei docenti da parte degli studenti. Non crede questi siamo aspetti positivi?
«Di meritocratico, nelle nuove forme previste per il reclutamento dei docenti universitari, c’è ben poco. La legge Gelmini non introduce affatto meccanismi di reclutamento virtuosi. Si è parlato molto del divieto di chiamata di docenti con certi gradi di parentela perché molto si era parlato delle parentopoli universitarie: si tratta di una risposta agli scandali doverosa ma molto di facciata. Troppo poco si è parlato invece del meccanismo della chiamata, mantenuto e anzi istituzionalizzato dalla legge Gelmini. Il reclutamento dei professori associati avverrà d’ora in poi per chiamata da un listone nazionale di idonei, dunque con un meccanismo assai meno meritocratico e molto più aperto alle manipolazioni rispetto ai vecchi concorsi – quanto meno quelli nazionali. Questo nuovo meccanismo non fa che prendere atto di un funzionamento distorto dei concorsi locali introdotti con l’autonomia universitaria che consentiva ai singoli atenei di chiamare candidati classificati al secondo e al terzo posto in concorsi svolti in altri atenei. In pratica, si faceva carriera andando a “perdere” un concorso altrove sperando di essere poi ripescati dalla propria università con una chiamata ad personam (per dire: se avessero dovuto chiamare me, avrebbero messo nel bando che alla tale facoltà serve una studiosa di epistemologia della scienze sociali con il ciuffo rosso e il cui cognome comincia per T). Questo meccanismo rimane – e questo fa senz’altro piacere ai baroni che magari non potranno più chiamare la propria moglie o il proprio nipote, ma certamente il loro allievo, meritevole o portaborse che sia. Dunque non è vero che la legge Gelmini è meritocratica, e non è nemmeno vero che è una legge “contro i baroni”, com’è stato sostenuto dalla stessa Gelmini. Ai baroni – si capisce – di questa legge dispiacciono solo i tagli. Quanto alla valutazione dei docenti da parte degli studenti, esiste già da tempo nella maggior parte delle università. Personalmente mi sembra una trovata piuttosto demagogica. Con tutto il rispetto per gli studenti, diciamoci la verità: che valutazione possono dare dell’effettiva preparazione dei docenti? Valutano al massimo la disponibilità, la chiarezza, la simpatia – con il rischio che premino i docenti meno severi, con buona pace della meritocrazia».
Molto si è parlato dei tagli ai finanziamenti. Sono davvero così consistenti? E che conseguenze avranno secondo lei?
«I tagli ci sono e sono molto consistenti. Ciò significa, tra l’altro, che il reclutamento di nuovi docenti sarà molto scarso, dunque il corpo docente invecchierà ulteriormente – ed è già un corpaccione cadente, pieno di rughe e di pellacce. In moltissime università si deve aspettare il pensionamento o la morte (meglio, così si risparmia anche sulle pensioni!) di un docente per poter bandire un nuovo posto. Si obietterà che in tempi di crisi i tagli piovono su tutti i settori pubblici. In Italia – a differenza di quanto avviene in altri paesi europei che in tempi di crisi hanno aumentato gli stanziamenti alla ricerca e all’università – i settori che hanno a che fare con la cultura sono senza dubbio più colpiti. Probabilmente perché sono considerati un lusso rispetto a esigenze più urgenti. Ancora più probabilmente perché sono disprezzati in un mondo in cui l’obiettivo di fare soldi – sporchi, maledetti e subito – prevale su tutto. A questo proposito vorrei osservare due cose. La prima, che colpire il pubblico significa far prosperare il privato (ne abbiamo già fatto esperienza in tanti altri settori: scuola, sanità, servizi sociali). La seconda che, almeno in Italia, dare spazio al privato non significa affatto dare spazio all’iniziativa di imprenditori votati all’innovazione e all’efficienza, ma piuttosto ai furbacchioni. E infatti la sofferenza dell’università pubblica italiana non sta affatto facendo sorgere università private di qualità, ma alimenta fenomeni deteriori: le “università telematiche”, la CEPU, le fabbriche a vario titolo di diplomi fasulli. Ha dato loro il via un decreto sciagurato all’epoca del ministro Moratti (un vero e proprio blitz: a un articolo contenuto nella Finanziaria, che consentiva alle “università esistenti”, pubbliche e private, di istituire corsi telematici, fece seguito un decreto ministeriale che di fatto istituiva le “università telematiche” a fianco di quelle esistenti). Berlusconi ha testimoniato il suo favore inaugurando l’anno accademico alla E-campus, l’università telematica della Cepu (naturalmente facendo battutacce sulle studentesse). Puntualmente la legge Gelmini apre alle università telematiche la possibilità di accedere ai fondi pubblici».
Questa riforma sembra aver risvegliato le proteste dei movimenti studenteschi, anche con forme nuove, quali l’occupazione dei monumenti. Lei ha vissuto le precedenti proteste studentesche, dal Sessantotto in poi? In che cosa trova che il modo di protestare di tali movimenti sia cambiato, e perché?
«Nel 1968 ero ancora al ginnasio, ricordo comunque il clima di quegli anni. La principale differenza tra oggi e allora è – ahimè – piuttosto sconfortante. I movimenti degli anni Sessanta e Settanta, fino al giro di vite degli anni di piombo, erano movimenti sull’onda del progresso civile e sociale. La società era in crescita, sul piano economico e su quello dei diritti e delle conquiste sociali, l’aspettativa era quella di cambiare il mondo, di fondare una società più giusta o almeno di migliorare le cose. Oggi i giovani che protestano stanno puntando forte i piedi perché il regresso in atto non li trascini a fondo: ne sono consapevoli, c’è davvero rabbia e amarezza nelle loro posizioni».
Come sono oggi la maggior parte dei giovani universitari? Più o meno interessati alla politica di un tempo? Diversi da come la televisione ce li mostra, oppure rassegnati alla scelta tra velinismo-tronismo e precariato?
«Naturalmente è difficile fare di ogni erba un fascio. Quelli che protestano rappresentano senz’altro un’avanguardia – e, bisogna ammetterlo, una minoranza – molto qualificata. Sono quelli capaci di esercitare il pensiero critico, cosa che sarebbe indispensabile all’università: non solo nei confronti delle istituzioni, ma anche nei confronti delle materie di studio, degli insegnamenti, dei testi. Senza dubbio prevale, negli ultimi anni, un certo conformismo: non noto, per la verità, grandi aspirazioni al velinismo-tronismo ma senz’altro una diffusa rassegnazione al precariato. Tante cose per loro sono peggiorate nell’organizzazione degli studi: hanno sempre meno appelli, poco tempo per preparare gli esami, ma anziché promuovere su questi punti rivendicazioni collettive cercano di arrangiarsi, chiedono deroghe personali, piaceri ai docenti. Quindi, a parte i momenti di mobilitazione, prevale un certo individualismo».
L’immagine: Maria Turchetto.
Viviana Viviani
(LucidaMente, anno VI, n. 63, marzo 2011)