“La visione universale del mondo” (Armando editore) è il primo, complesso trattato filosofico del cuneese Alessandro Giraudi
Nato a Cuneo nel 1974, il filosofo Alessandro Giraudi ha recentemente dato alle stampe La visione universale del mondo. Per la rivoluzione inclusiva (Armando editore, pp. 460, € 15,00). Si tratta di una complessa e approfondita riflessione filosofica su tre problemi teoretici fondamentali che nel saggio di Giraudi s’intrecciano: la realtà (il mondo reale), Dio e il divenire delle cose (problema quest’ultimo correlato alla questione del nichilismo). L’autore intende affermare che una visione universale della realtà e di Dio è condivisa da tutte le coscienze umane, a prescindere dalla loro collocazione geografica e storica: dunque un’idea universale sia nello spazio sia nel tempo. Del libro proponiamo di seguito al lettore la Prefazione di Marco Gatto, docente di Teoria della Letteratura.
Con una mossa dialettica molto convincente, Alessandro Giraudi assume come dirimente la dissoluzione di una delle tante dicotomie che contrassegnano il pensiero contemporaneo: quella che vede fronteggiarsi realismo e antirealismo. L’oltrepassamento di questa opposizione – che, sovente, nel dibattito si è tradotta in forme vacue e semplificate – è concepito in chiave universalistica, trascinando le questioni su un terreno in cui la riflessione si pone in costante verifica, sia per pensarsi nei suoi limiti di atto gnoseologico, sia per concepirsi quale indispensabile coscienza critica del mondo reale.
È una mossa che va in due direzioni: da un lato, mostra come le opposizioni o le forme binarie dominino ancora la scena del pensiero, così dando vita, spesso, a cattive infinità o a cornici ideologiche capaci di immobilizzare la speculazione; da un altro, la dissoluzione, in questo libro assai ricercata in modo sistematico, di qualsivoglia visione ristretta riabilita una fondamentale lezione del sapere moderno, che consiste nello scoperchiare il grado di universalità insito in ogni atto di pensiero, per mezzo di una considerazione permanente del rapporto tra Io e mondo (posto dalla filosofia di Cartesio), che è anche un rapporto tra i «molti mondi» (via Spinoza), in un processo di riconoscimento che, seguendo la strada della socializzazione possibile, sia in grado di lasciarsi alle spalle tutte le falsificazioni cui l’identità è sottoposta; falsificazioni che pertengono sia alla sfera monadologica sia a quella collettiva, fino a giungere alla dimensione della politica, come la dialettica hegeliana ha mostrato. Seguendo la posizione di Giraudi, assai articolata e generosa nel confrontarsi con i grandi classici del pensiero e con gli studi più recenti sulla crisi della ragione, viene dunque da chiedersi se non sia essa stessa il “sintomo” di un momento cruciale per la filosofia d’oggi.
Dopo il momento postmoderno – dopo, cioè, l’idea che non possano più darsi «grandi narrazioni» (Lyotard), che gli approcci sistematici siano, di fronte alla liquidazione della realtà, del tutto insoddisfacenti; che occorra pertanto rinunciare a qualsivoglia fondazionalismo, perché sentito quale esito di forme totalizzanti e totalitarie; che all’utopia si possano sostituire specifiche eterotopie, rinunciando così all’estensione di un pensiero entro spazi più vasti; e, infine, che il rapporto con la realtà sia anzitutto segnato dalla prigione linguistica in cui siamo rinchiusi, secondo il motto «L’Essere è il Linguaggio» – dopo tutto ciò, insomma, la necessità di uscire dal vicolo cieco di un pensiero che sembra avvitarsi su se stesso sembra essere all’ordine del giorno.
Non per dire che il postmoderno sia finito o per celebrare chissà quale ritorno inaspettato del moderno. Quanto per ribadire, come Giraudi fa, che compito del pensare sia quello di non permanere in forme tranquillizzanti di non-senso o in modalità del tutto adattive, ma di riscattare una riflessione sul divenire che apra all’impensato. Leggo in tal senso l’utilizzo, anche questo “sintomale”, dell’aggettivo “universale” che campeggia nel titolo. Perché il nocciolo duro di questo testo – che è a suo modo l’espressione di un’intenzione sistematica, da apprezzare – risiede nell’idea che il pensiero possa farsi garante di un’estensione della “visione” soggettiva nel più ampio spazio della realtà, non nei termini di una sua inclusione – che potrebbe apparire, se si esaurisse in se stessa, un atto pretenzioso e ingiustificato – quanto nei termini di una sua datità realistica, che si fonda su una condivisione riflessiva che Giraudi pensa come “senso comune”. Insomma: il paradigma che, di volta in volta, vede il soggetto come dipendente o indipendente – come articolato o inarticolato – dalla realtà o da altre soggettività inumane, viene sostituito dal pieno inserimento del soggetto nel mondo reale, perché il soggetto è quella stessa realtà, nei termini di una sua piena partecipazione a un progetto o a un disegno che, pur assumendolo come attore, oltrepassa se stesso (tuttavia conservandolo come parte indispensabile).
È insomma una chiamata all’inclusione che dovrebbe, a parere di Giraudi, mobilitare la coscienza di tutti. Ed è inevitabile che l’autore si ponga il problema, oggi forse centrale, di quali siano i limiti posti a tale inclusione (si vedano le pagine dedicate alle diverse forme di inclusione), ossia alle barriere che ostacolano lo sviluppo di una filosofia comune. Chi scrive non può esimersi dal ricordare che il passaggio da un “senso comune” a un “buonsenso” filosofico è l’oggetto privilegiato di alcuni nessi di pensiero che Gramsci sviluppa nei Quaderni: laddove il sorgere di una filosofica critica e di un ordine morale è concepito quale scardinamento di tutte quelle visioni falsificanti che bloccano l’elaborazione autocosciente di un proprio disegno concettuale, trascinando il soggetto nel pantano degli stereotipi o delle semplificazioni.
Ma saremmo così in una cornice materialistica. Gran parte di questo libro è invece dedicata a una riflessione sul divino, colta in stretto legame alla pensabilità del divenire. Giraudi accede a una forma di totalità che legittima la sua idea di universalismo. Cerca, cioè, un fondamento che sia rispettoso della mobilità o della “causalità metafisica” che Giraudi vede coesistere col materialismo di un causalismo fisico-biologico. È un modo per definire l’avversario ideologico che ha animato la sua riflessione: il nichilismo, la cui presenza appare nelle forme di una costante decostruzione del fondamento. Al contrario, l’autore vuole, senza dogmatismi, indirizzarsi verso una filosofia comune che se non potrà essere, almeno per chi scrive, quella religiosa, potrà però porsi quale ricerca inesausta di nuovi orientamenti per sfuggire all’orrore del vuoto o alla convinzione, appunto da demolire, di un reale che non sia afferrabile con gli strumenti del pensare.
Carmela Carnevale
(LucidaMente, anno XIV, n. 164, agosto 2019)