Da “Rischiatutto” e “C’era una volta Studio Uno” all’invasione di youtuber e blogger: quando la cultura nazionalpopolare trasforma lo scontro generazionale vecchi/giovani in una chiacchierata tra amici… E c’era già tutto nel classico russo “Padri e figli” di Turgenev
Alessandro Baricco, nel saggio I barbari, descrive l’assalto dei nuovi modi di comunicare sui tradizionali sistemi di divulgazione. I barbari, per definizione, parlano una lingua diversa, l’arma più efficace di cui un apparato culturale possa servirsi per diventare egemone. Inutile costruire barriere per scoraggiare le invasioni: l’ansia di rinnovamento brulica nelle pareti domestiche come un eterno ronzio. Possono essere i personaggi nichilisti di un romanzo russo o i nativi digitali, noti come millennials, ma, in entrambi i casi, il profilo dei barbari coincide con quello dei figli.
L’incontro tra Nikolaj Petrovic Kirsanov e suo figlio Arkadij, appena tornato da San Pietroburgo, apre il romanzo di Ivan Turgenev Padri e figli (1862) e svela il nucleo pulsante della storia da cui si sdipanerà la matassa narrativa: c’è l’amore incondizionato, c’è una differenza malcelata tra due mondi in lotta. L’allarme minaccioso di un disagio taciuto che aspetta solo di essere urlato. Assieme ad Arkadij c’è Bazarov, brillante studente di medicina, animato da un razionalismo ferreo, da una totale aderenza al mondo delle cose che si traduce in una visione nichilista verso tutto ciò che esuli dagli esperimenti scientifici che conduce sulle rane. Compresa l’arte. Verso di lui Arkadij nutre una sorta di timore reverenziale, come una profonda gratitudine verso la persona che, aprendogli gli occhi, gli ha permesso di cercare la verità su strade non ancora battute, diverse da quelle suggerite dai modelli tradizionali.
Se volessimo inquadrare in maniera nitida la vicenda, andremmo ad analizzare il dibattito culturale della Russia di metà Ottocento incentrato sullo scontro dialettico tra romanticismo e nichilismo. Emblematico è l’episodio in cui Arkadij sfila dalle mani del padre Gli zingari di Aleksandr Sergeevič Puškin per sostituirlo con Kraft und Stoff di Eduard Buchner, uno dei capisaldi del materialismo evoluzionistico. Ma l’esigenza di sviluppare una riflessione più attuale impone di scavalcare le definizioni convenzionali e spostare la lente sui rapporti di forza sottesi allo scontro ideologico: esaminare le interazioni tra gli schieramenti, le dinamiche che muovono azioni e reazioni, la volontà di ascoltare, di spiegare e di capirsi.
La scossa generata dall’arrivo dei due giovani ha un effetto destabilizzante sulla vita dei padri. Si spostano dall’università di San Pietroburgo alla tenuta dei Kirsanov, dal centro alla periferia: un cambiamento sostanziale, se si considerano i diversi orizzonti ideologici di una realtà rivolta al progresso, consacrata alla contaminazione dei saperi e di una struttura chiusa, autosufficiente, che percepisce le istanze dell’epoca solo attraverso le timide rivendicazioni dei contadini. Per quanto vengano accolti con entusiasmo, Arkadij e Bazarov sono protagonisti di quella che potremmo definire un’invasione barbarica. Come affrontarla? Turgenev presenta due reazioni: l’assimilazione dei tratti più rappresentativi della cultura barbara, legata al personaggio di Nikolaj Kirsanov, e lo scontro frontale, incarnato dal fratello di Nicolaj, Pavel Petrovic Kirsanov, uomo istruito e orgoglioso di un passato trascorso nei salotti più sfarzosi d’Europa, intento a far valere la sua visione del mondo.
La formazione dei nostri padri ha reagito allo straordinario sviluppo tecnologico degli ultimi anni in maniera molto simile. Le prove più evidenti possiamo ritrovarle nell’operato di una delle istituzioni che da sempre educa, informa e diverte gli italiani. Un po’ come una mamma che fa gli scherzi da prete e allena la nazionale col metodo Montessori. Potrebbe essere tranquillamente l’identikit dell’anticristo e invece parliamo della Rai. Il restyling degli ultimi anni parla chiaro: c’è sia l’apertura arrendevole al nuovo che avanza sia l’autocelebrazione della propria storia. Due anime in conflitto che mettono a nudo la schizofrenia delle istituzioni di fronte al cambiamento. Sono confermati i classici della storia recente, infallibili incensatori di chiese e caserme (don Matteo e il commissario Montalbano) e, in più, vengono riesumati dal cimitero monumentale programmi come Rischiatutto, condito dalla partecipazione solenne dello storico autore Ludovico Peregrini. E l’alba dei morti viventi non è mai stata così terrificante.
L’intera storia della rete diventa una fiction con C’era una volta Studio Uno: una produzione basata sugli anni rampanti della rete, che ripercorre le gesta di coloro che hanno saputo essere giovani molto prima dei propri figli. Ci sono gli amori, le trasgressioni, tanto spirito d’iniziativa e quel brivido revivalistico che scuote la sensibilità anche di chi, quegli anni, non li ha vissuti: «Ecco la storia di come si costruisce un impero, prendete esempio. Se avete ancora l’umiltà di farlo». Ma è impossibile non riconoscere nella nuova programmazione il desiderio di adattarsi ai tempi che corrono. C’è ed è anche impellente. A patto di ammorbidirsi leggermente nei contenuti e nel linguaggio, fanno capolino sulle reti televisive Willwoosh, Il Pancio e altri personaggi provenienti dalla galassia YouTube. A Sanremo appare un video di Fabio Rovazzi (quello di Andiamo a comandare); Greta Menchi, ventiduenne blogger, nota ai più per le profonde dissertazioni sui ragazzi stronzi che spezzano cuori per sport e le ragazze testarde che, nonostante la stazza, indossano i leggings, viene inserita nella giuria di qualità. Proliferano gli hashtag, trattati come una sorta di portafortuna da apporre a ogni termine pronunciato. È come se durante l’esecuzione di un flashmob, in cui tutti ballano e saltano sorridenti, fossero arrivati degli estranei volenterosi di essere parte dello spettacolo, ma incapaci di amalgamarsi alla folla perché troppo scoordinati o troppo goffi.
Se la realtà odierna ci consegna l’immagine di un interscambio generazionale a metà strada tra il ridicolo e il grottesco, quel che emerge dalle pagine di Padri e figli è un sentimento di profonda inadeguatezza. Tanto frustrante, quanto struggente. Con una nota di malinconia Nicolaj ricorda le sue visite a San Pietroburgo da Arkadij quando «inutilmente aveva ascoltato le conversazioni dei giovani; inutilmente si era rallegrato quando era riuscito a inserirvi anche le proprie parole e i propri discorsi appassionati». Vive il trauma di un padre che, reo «di essere rimasto indietro», si rende conto che non potrà mai essere amico di suo figlio: assiste in silenzio agli esperimenti di Bazarov, stando sull’uscio di un mondo in cui non è ammesso e, dalla sua camera, fa risuonare col violoncello le note dell’Attesa di Franz Schubert, suscitando l’ilarità dell’amico di suo figlio. Una notte, come «inseguito da un’ansia inquirente, indefinita», prova ad allontanarsi dalla sua stessa casa, dove comincia a sentirsi estraneo e, dopo aver camminato a lungo, scioglie tutte le paturnie in un pianto: «Lui, un uomo di quarantaquattro anni, un agronomo, e possidente, avvolto dalle lacrime, lacrime senza motivo; questo era mille volte peggio del violoncello».
Anche le vicende legate a suo fratello Pavel lasciano intravedere molto più dell’astio dichiarato verso le nuove generazioni. Le sue smorfie di sdegno alle critiche dei ragazzi inducono il cinismo di Bazarov a bollarlo come «aristocraticuccio», ma questo non lo dissuade dal trasformare ogni conversazione conviviale in un dibattito eristico. L’odio crescente tra lui e Bazarov è un collante indispensabile al racconto e giustifica la tensione drammatica del romanzo. Come in tutta la letteratura russa che si rispetti, lo scontro culmina in un duello, con tanto di appuntamento all’alba e giudice improvvisato. Da contesa il duello diventa quasi terreno di riappacificazione: non c’è alcuna mano tesa, sia chiaro, ma c’è un’epifania condivisa da entrambi che, per un attimo, riescono a comprendere le ragioni dell’altro e cambiare, anche se di poco, il loro modo di affrontare la realtà.
Le lacrime e i duelli. Esattamente quello che si cerca di evitare in quest’epoca di cambiamenti rivoluzionari. Sarà una questione di marketing, sarà il naturale evolversi della “società dello spettacolo”, sarà che forse non ci riguarda, ma è chiara la volontà di tenere unito e rappezzato un tessuto sociale che, inevitabilmente, appare lacerato in più punti. Volontà deleteria che impone di glissare sul fenomeno, di trasformare le lacrime in una risatina saccente e i duelli in una sfida a braccio di ferro dopo il pranzo di Natale. In due parole: le differenze perdono tutto il loro slancio utile alla crescita perché ci impegniamo ad affrontarle superficialmente o meglio, per usare un neologismo a noi caro, vogliamo surfarci sopra.
Le immagini: la copertina del libro Padri e figli di Ivan Turgenev, una foto delle tre attrici protagoniste della fiction C’era una volta Studio Uno (da sinistra a destra: Giusy Buscemi, Alessandra Mastronardi e Diana Del Bufalo e… la Rai.
Orazio Francesco Lella
(Lucidamente, anno XII, n. 136, aprile 2017)