A proposito di influenza dei mass media, l'”idioma gentil sonante e puro”, così caro ad Alfieri e che tanto pensiero diede a De Amicis, il quale trasse da questo verso il titolo di un suo libro del 1905 (recentemente ristampato dall’editore Baldini Castoldi Dalai), ora non è più soltanto minacciato dalla soppressione di un’accademia che ne salvaguardi la purezza, ma è fortemente invaso, per una sorta di provincialismo incomprensibile e idiota, dall’intrusione di termini inglesi anche laddove, e per la maggior parte dei casi, non ve n’è alcun bisogno.
E mi dispiace osservare che i portatori sani di questa malattia, di questo cancro che minaccia la nostra lingua, sono proprio quei soggetti che della lingua dovrebbero essere i garanti e guardiani. Mi riferisco soprattutto a taluni giornalisti, che, con atteggiamento estremamente compiaciuto, “sparano” il termine inglese, anche quando esiste benissimo il corrispettivo italiano.
Il filoamericanismo linguistico – Oramai anche nei più piccoli e sperduti paesini d’Italia, come nelle grandi città, quasi non si aprono negozi o attività imprenditoriali che non abbiano il nome in inglese, spesso con effetti comici o indecifrabili, visto che la conoscenza di sole poche parole, che traducono i termini italiani, spesso danno luogo a denominazioni incomprensibili. Tutto questo, mentre l’italiano, da molto tempo ormai, è la lingua di cultura più studiata al mondo, è la lingua dei grandi capolavori, è la lingua nella quale ancora oggi, universalmente, si esprimono concetti e termini relativi alle più nobili delle arti. Benché alle volte si assista a manifestazioni di antiamericanismo deciso e talora violento da parte di appartenenti a certe componenti politiche italiane, non so se esista al mondo un’altra nazione così profondamente rivolta all’autocolonizzazione nei confronti degli Stati Uniti. E questa sorta di dipendenza culturale e di modo di vivere la si riscontra in maniera verticale e spalmata su ogni ceto. Io amo l’America, amo la sua cultura, il suo modo di vivere, ma cerco di non esagerare soffocando la mia identità sotto un americanismo all’Alberto Sordi; in altre parole, ancora alla mia età amo le donne, ma non mi metto le giarrettiere, i tacchi alti, le ciglia finte!
“Wow” e “uauuu” – Oramai non ci si veste se non “casual” e non ci si allena più, ma si fa “training”. Il buon vecchio pettegolezzo è diventato “gossip” e gli oggetti usati, di seconda mano, sono diventati “vintage”. La nostra vita è accompagnata da colonne sonore fatte da quasi solo musica americana ed americani sono i “best sellers” che accompagnano i nostri momenti di “relax”. Anche un video promozionale dell’Accademia militare di Modena ha come colonna sonora Va’ pensiero, ma cantata da Zucchero – Sugar, ovviamente – Fornaciari in… inglese. I bambini fanno “oh oh”, i ragazzi “hoops”, e la meraviglia la esprimono con “wow”, pronunziato “uauuu”. Un “processo” tenuto in una trasmissione televisiva di gastronomia, nella quale si doveva decidere a favore del “fast food” o dello “slow food”, era organizzato all’americana con tanto di giuria, giudice, procuratore e avvocati. Vestiamo Nike (detta “naichi”), Lee, Fruit of the loom, beviamo Coca o Pepsi Cola, mangiamo “hot dog” o “hamburgers” nei Mc Donald’s e simili.
La perdita della nostra cultura – Non ci accorgiamo più di quanto il nostro modo di vivere sia pervaso (o imbastardito) da infiltrazioni della “way of life” americana. Come già detto, mi dispiace che questo malvezzo sia stato alimentato anche dalle istituzioni, le quali, con le “question time”, col “welfare”, coi programmi “educational” e tanti altri termini perfettamente traducibili in italiano (come avremmo fatto sennò fino ad ora?), allargano il panorama di soggezione alla grande nazione atlantica. Non abbiamo più progetti o finalità; abbiamo solo “forecasting”, “goals”, “missions” (detto “miscions”). I mezzi di comunicazione ora sono da tutti
chiamati “mass midia”, quando “media”, usatissima parola latina, già nobiliterebbe abbondantemente il discorso. E la completa mancanza di difese immunitarie viene rivelata dall’adozione immediata ed acritica del termine “tsunami” per indicare un ben già definito “maremoto”. Ultima arrivata, anche se da alcuni anni ormai, è l’acquisizione della festa di Halloween, completamente estranea alla nostra civiltà, alla nostra cultura, alle nostre tradizioni. Brutta ed anglosassone copia, forse, del nostro Carnevale, è passata per una sorta di provinciale osmosi dagli schermi del cinema (oramai quasi solo americano), della televisione (idem), dei romanzi (come prima), come moda diffusa e fortemente praticata, nella nostra società, spingendo di lato, quando non la altera, la nostra bella, antica, triste, dolce commemorazione dei defunti, trasformando quest’ultima ricorrenza in un bailamme di costumi, colori, rumori, che ci è completamente estraneo e che turba il nostro antico modo di commemorare i morti.
I giovani, portatori sani – Tutto quanto esposto mi dispiace già a sufficienza, pur essendo consapevole che, per effetto delle mia età e delle mie frequentazioni, non scorgo che la punta dell’iceberg, e molti segnali mi lasciano capire come questa invadenza sia molto più larga e profonda. E mi rattrista pensare come la nostra cultura, la nostra civiltà, le nostre tradizioni, mentre cominciano a essere un punto di riferimento per altri popoli, come lo furono in passato, oggi siano, al nostro interno, insidiate dalla carie di una cultura a noi estranea e diffusa come un morbo da portatori sani, che poi includerebbero – oltre ai giornalisti – anche le nostre ultime generazioni.
L’immagine: particolare di Crispino e Scapino (Parigi, Musée d’Orsay) di Honoré Daumier (Marsiglia, 1808 – Valmondois, 1879).
Antonio Nicoletta
(LucidaMente, anno II, n. 17, maggio 2007)