“Il labirinto è la via giusta per chi arriverà, in ogni caso, sempre troppo presto alla meta. E questa meta è il mercato. […] L’ambiente oggettivo degli uomini assume, sempre più apertamente, la fisionomia della merce. Nello stesso tempo la réclame si accinge a coprire col suo bagliore il carattere di merce delle cose”.
(da Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1962)
Walter Benjamin
LA RILETTURA
Con queste parole, contenute nell’opera Angelus Novus, il critico e filosofo tedesco Walter Benjamin (Berlino, 1882 – Port Bou, 1940), partendo dall’esempio di Parigi, capitale della modernità, descrive il contesto storico e sociale dell’inoltrato Ottocento europeo, in cui viene avviato il processo di mercificazione della civiltà occidentale. Fornendo un’interpretazione storico-allegorica, secondo la quale il Diciannovesimo secolo va inquadrato come “preistoria” della società di massa, Benjamin rappresenta un paesaggio sconvolto dalla modernità, quasi si trattasse di un’epoca involuta, caratterizzata da una forte confusione identitaria e da un generale disorientamento culturale.
Baudelaire interprete delle masse – In tali condizioni, in cui la società si dimostra sempre meno disposta ad accettare la cultura come portatrice di valori civili, egli riconosce nell’avanguardia artistica e letteraria la sola voce capace di interpretare la situazione degli intellettuali nella società di massa. In particolare, egli ritrova in Baudelaire l’unico autore in grado di catalizzare l’attenzione delle masse, avviando una lirica assolutamente innovativa, adatta a colpire gli animi della folla e capace di comprenderne i sentimenti in merito allo sviluppo e al progresso. Tali parole si dimostrano assolutamente appropriate per spiegare in che modo, nel Ventesimo secolo, il contesto storico-culturale occidentale abbia favorito l’affermazione dei movimenti avanguardisti sorti in campo artistico e letterario a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta; correnti talmente innovative da rompere con ogni schema tradizionale.
Il tramonto della tradizione culturale d’Occidente – In Europa, all’indomani del secondo conflitto mondiale, la situazione è delle più complesse: le città, nuovi centri propulsori del progresso, divengono teatri di quotidiana alienazione. Un forte disagio nel ritorno alla normalità viene avvertito da individui totalmente assorbiti e fagocitati dai meccanismi della modernizzazione, che immola la persona sull’altare dello sviluppo, per cui tutto è merce, anche l’uomo. Gli eventi storici hanno dimostrato a sufficienza, a quella svolta di secolo, come l’intera tradizione culturale occidentale fosse giunta al suo disfacimento, non essendo stata in grado di proteggere l’uomo dall’abominio delle leggi razziali, dai massacri, dall’odio e dal terrore. Ancora una volta si rivela profetico il messaggio lanciato da Benjamin nell’opera Angelus Novus, il cui titolo è allusivamente ripreso dall’omonima opera del pittore svizzero Paul Klee in cui, spiega lo stesso Benjamin, “si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”. Il dipinto è una rappresentazione metaforica di come la nostra tradizione culturale sia stata ridotta a un ammasso di macerie dagli orrori della contemporaneità, mentre l’uomo moderno viene irresistibilmente risucchiato dalla forza del progresso.
L’Informale – Ma è sulle macerie del passato che si innestano le avanguardie del futuro. Non stupisce, dunque, che ad imporsi sul piano artistico sia il movimento Informale, fenomeno importantissimo perché gravido di conseguenze, al punto da causare un generale riassestamento di tutta la vicenda figurativa moderna. Al genere informale appartengono le opere dei maestri francesi Jean Fautrier e Jean Dubuffet, i quali, pur nascendo solo una generazione dopo quella dei pittori cubo-futuristi, evitano accuratamente di ripeterne l’iter artistico. All’imperante astrazione geometrica essi preferiscono la creazione di immagini amorfe, dai contorni imprecisi e dalle figure non riconoscibili: informi, per l’appunto. Ora non la fanno più da padroni soggetti esclusivamente prelevati dalla natura (come imponeva la tradizione pittorica), bensì germi, embrioni, feti, forme indefinite che si traducono in semplici grumi di colore rappreso, coaguli materici che invitano lo spettatore a cercare collegamenti con la realtà, anche se di essa non viene mai esplicitamente fornita una resa ottica. Il rimando alla natura è tuttavia subliminalmente stimolato dalle allusioni figurali comunque presenti. Non a caso il critico Renato Barilli sostiene l’esistenza di un fil rouge che lega la pittura informale all’ambito poetico, per via del condiviso funzionamento della metafora, o delle baudelairiane correspondances, impadronendosi di quel processo analogico cui proprio Baudelaire aveva dato inizio.
Sperimentazione letteraria – Per quel che concerne invece il mondo letterario, durante la prima metà del Novecento sul piano internazionale si assiste all’affermazione della scrittura neoavanguardista di Ezra Pound e Thomas Stearns Eliot, entrambe portatrici del sentimento di decadenza della qualità dei tempi avvertita dall’uomo contemporaneo. Qui emerge a chiare lettere come il contesto storico-culturale dell’epoca non restasse affatto per i poeti sullo sfondo delle loro opere, ma ne costituisse una componente ineliminabile, caratterizzata dal profondo senso di alienazione e straniamento imposto dagli anni. Quindi si rendeva necessaria l’elaborazione di testi assolutamente sperimentali, a cui farà eco in Italia la nascita di numerose riviste letterarie come Il Politecnico (1945-1947), Officina (1955-1959), Il Verri (1956-in corso), Il Menabò (1959-1967), Quindici (1967-1969) tra le numerose altre, che, sebbene differenti negli intenti, si fanno tutte portatrici di un nuovo dibattito, avviando una ridiscussione del rapporto tra tradizione e letteratura. In particolare è la rivista Il Verri a connotarsi immediatamente come centro catalizzatore di nuovi fermenti letterari, divulgando quegli stimoli innovativi funzionali alla creazione di una poesia d’avanguardia, che potesse risollevare la cultura dall’intorpidimento sterile nel quale era da tempo piombata. Non è un caso il fatto che alla rivista collaborino, tra gli altri, Nanni Balestrini, Antonio Porta, Elio Pagliarani, Alfredo Giuliani ed Edoardo Sanguineti, ovvero tutti e cinque i poeti che nel 1961 vengono compresi nell’antologia I Novissimi. Poesie per gli anni ’60 e che nel 1963 contribuiscono a formare a Palermo il primo nucleo neoavanguardista del Gruppo ’63.
Il secolo della crisi intellettuale – Dunque Benjamin ci parla del Novecento come di un secolo funestato da gravi eventi, quali la nascita dei totalitarismi, il mancato controllo dei progressi tecnologici e l’incapacità di restituire ai prodotti culturali della nostra millenaria tradizione culturale quell’aura che li rendeva portatori di valori civili concreti. Tuttavia egli sottolinea come il secolo appena trascorso manifestasse le proprie potenzialità positive nelle possenti spinte rivoluzionarie che, senza indugiare nell’utopia di riforme graduali e indolori e senza sottomettersi ai miti del progresso e della tecnologia, si assunsero la responsabilità epocale di comprendere e dimostrare che, nello stato di emergenza in cui viviamo, la sperimentazione è l’unica soluzione ai bisogni culturali sorti in quello che per eccellenza è stato il secolo della crisi intellettuale.
L’immagine: la copertina dell’opera di Walter Benjamin.
Claudia Mancuso
(LucidaMente, anno II, n. 22, ottobre 2007)