Lasciare che i barconi di migranti siano intercettati e riportati a Tripoli sembra essere la soluzione prediletta dai governi italiani di ogni colore per risolvere l’annosa questione dell’accoglienza. Ma vìola i diritti umani fondamentali
Il 2 febbraio 2017 Paolo Gentiloni, allora presidente del Consiglio, firma con Fayez al-Sarraj, primo ministro del governo della Tripolitania, un memorandum d’intesa per contrastare l’immigrazione illegale. Un accordo, facente seguito al trattato di amicizia stretto nel 2008 e al suo rinnovo del 2012, che gode del sostegno di tutta l’Unione europea, nell’ottica di ridurre le morti in mare.
Il risultato è che “i più fortunati” fra coloro che desiderano arrivare in Europa riescono a imbarcarsi andando incontro a giorni di navigazione su mezzi inadatti e sovraccarichi, che spesso non reggono oltre poche miglia dalla costa libica. Gli altri vengono bloccati al loro arrivo in Libia – Paese nel quale i migranti di tutta l’Africa subsahariana, del Corno d’Africa e di parte del Medio Oriente si dirigono per poi attraversare il Mediterraneo – o intercettati mentre cercano di partire e condotti in centri di detenzione dove subiscono torture disumane. In molti hanno criticato l’alleanza fra l’Ue e un Paese che viola così apertamente i diritti umani: l’alto commissario dell’Onu Zeid Raad al-Hussein ha definito le modalità utilizzate dalla Libia «un oltraggio alla coscienza»; l’avvocata Azza Maghur, assieme ad altri cinque ex giuristi, ha presentato un ricorso alla Corte d’Appello di Tripoli che è stato accolto il 22 marzo 2017; l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha da subito sollevato questioni di legittimità (Perché l’accordo tra l’Italia e la Libia sui migranti è sotto accusa, Internazionale).
Ma procediamo con ordine: che cosa prevedono i patti stipulati fra i due Paesi? Il primo, quello del 2008, impegna l’Italia a un versamento di cinque miliardi di dollari in aiuti. Roma finanzia inoltre le infrastrutture, forma il personale e fornisce assistenza tecnica alla guardia costiera e alla guardia di frontiera libica. Il 20 marzo 2017 al-Sarraj presenta una lista di richieste tra cui figurano navi, elicotteri, automobili e altra strumentazione per un totale di ottocento milioni di euro.
Il compito della Libia è di attuare un costante pattugliamento per impedire le partenze, bloccando i migranti prima che si imbarchino oppure intercettandoli direttamente in mare per riportarli indietro. Che fine facciano queste persone, una volta fermate e ricondotte a Tripoli, non è nell’interesse delle autorità firmanti. Finanziare tutto questo è sbagliato poiché la Libia non è un paese stabile, né in grado di gestire in totale autonomia un fenomeno delicato come la migrazione. La nazione è infatti divisa in due: da una parte il governo appoggiato dalla comunità internazionale, quello della Tripolitania guidato da al-Sarraj, dall’altra la Cirenaica del generale Khalifa Belqasim Haftar. Dalla caduta di Mu’ammar Gheddafi, nel 2011, si verificano guerre civili e scontri fra milizie e forze governative, nel tentativo di rovesciare lo status quo. La soluzione del doppio governo era stata pensata per garantire la pace, ma pochi giorni fa Haftar ha deciso di marciare su Tripoli e di conquistare tutta la parte sud-occidentale che non è sotto la sua influenza (Libia for dummies, Francesca Mannocchi per Propaganda Live).
Se i metodi utilizzati dalla guardia costiera libica nella gestione dei traffici illegali di persone erano già discutibili, adesso lo sono ancor di più. Ammettere la propria incapacità di affrontare la questione comporterebbe il taglio dei finanziamenti italiani e non è dunque contemplato, ma segnali preoccupanti di una simile deriva giungono ugualmente. Il governo di al-Sarraj, davanti all’offensiva di Haftar, non dispone di forze sufficienti da destinare al salvataggio in mare e non è dunque operativo a tale scopo.
Circolano addirittura immagini di imbarcazioni, fornite dal nostro Paese alla Libia, modificate e utilizzate a scopi militari (Libia. Tripoli interrompe i soccorsi in mare e usa le navi italiane per la guerra, Avvenire). Ciò comporterebbe la violazione dell’embargo sulla fornitura delle armi da parte dell’Italia, che rischia quindi un richiamo dall’Onu. Il 23 aprile, inoltre, un gruppo armato ha fatto irruzione nel centro di reclusione di Qasr bin Ghashir e ha aperto il fuoco provocando, secondo le testimonianze di alcuni dei detenuti, due morti e venti feriti. Nonostante tutto, la Libia è definita un porto sicuro. L’attuale ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, ha imposto un severo giro di vite all’attività delle Ong nel Mediterraneo centrale, delegando l’intera responsabilità di ciò che vi accade alla Libia. La guardia costiera italiana non è più attiva: al suo posto sono subentrati aerei che sorvolano le zone interessate dai naufragi e che, qualora si imbattano in una nave in avaria, inoltrano segnalazione alle autorità libiche.
Un abbandono silenzioso, passato totalmente inosservato e celato dalla drastica diminuzione degli sbarchi che ne è conseguita. Il punto critico è che, secondo un report dell’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati) che fotografa settimanalmente la situazione degli arrivi sulle nostre coste, c’è stata un’impennata dei morti (ufficiali) di quasi il 24% fra l’inizio del 2019 e il 21 aprile. Ci si dovrebbe allora domandare se l’obiettivo sia contrastare l’immigrazione illegale per evitare tragedie in mare oppure per fermare semplicemente gli arrivi. Siamo disposti a pagare per la nostra “sicurezza” un prezzo così alto in termini di vite spezzate?
Le immagini: un centro di detenzione in Libia; carri armati libici; la nave fornita dall’Italia alla Libia in assetto di guerra (da Avvenire).
Alessia Ruggieri
(LucidaMente, anno XIV, n. 162, giugno 2019)