Se la postura del nobile quadrupede stante su quattro zampe (ma anche su tre con la zampa anteriore invariabilmente sollevata, destra o sinistra che fosse) è stata facilmente realizzabile in bronzo, per quel che riguarda l’uso del marmo (del legno o della pietra in genere), per evitare che la scultura di spezzasse per l’enorme peso del resto del corpo dell’animale (per tacer del cavaliere), furono sempre praticati vari espedienti (la quinta zampa, appunto). Rocce di accertata solidità che facilitavano l’impennata del destriero, il quale risultava, da un punto di vista visivo, sulle due zampe posteriori, mentre, in realtà, si appoggiava sulla “terza gamba” laterale del finto roccione; ovvero figure allegoriche nel sottopancia, drappeggi opportunamente caduti, rami o arbusti convenientemente “piantati” nei pressi del gruppo, e così via. Per tacere dei vari accorgimenti, in ambito metallurgico, per celare, tramite i finimenti dell’animale (sottopancia, redini, pettorale, sella e gualdrappa), le necessarie saldature.
Nella storia della tecnica artistica legata al monumento equestre (e non solo), sia metallurgica sia litica, pur nelle differenti tecniche operative, si è sempre assistito a progressi e a repentine o lente regressioni dovute a stravolgimenti storici e sociali. Per esempio, nonostante il monumento equestre abbia origini secolari, e gli esempi di arte antica che prederemo poco oltre in esame lo dimostrino, nell’arte religiosa del Medioevo esso assume un valore morale e diviene simbolo della Superbia.
Il supposto Costantino, cioè il Marco Aurelio, assurse a simbolo della vittoria cristiana contro il paganesimo e, quindi, del Bene sul Male. Questi due esempi daranno il destro a distinte interpretazioni. La prima porterà, intorno al XIII secolo, ad adoperare la statua equestre quale monumento alla libertà comunale. Durante l’epoca delle Signorie il cavallo servirà a sostenere il ritratto del defunto signore. La seconda utilizzerà il monumento equestre per rappresentare la vittoria del Bene sul Male tramite San Giorgio che uccide il drago (fra i tanti il fantasmagorico San Giorgiodella chiesa di Stoccolma) o San Martino che soccorre il povero (come quello della cattedrale di Lucca).Da cavallo a quadriga
Nonostante che, al semplice nominarlo, il monumento equestre porta la mente alla inevitabile figura del Marco Aurelio (di felice memoria) non ci piegheremo a tale bisogno primario e, raffrenando il morso (è proprio il caso di dirlo), vedremo di proseguire “al passo”.
Ancora prima che la civiltà dell’automobile soppiantasse il cavallo in tutto e per tutto, relegandolo ad animale da maneggio e soltanto per la nobile arte dell’equitazione, per centinaia di anni servì egregiamente l’uomo come animale tra trasporto, da traino e soprattutto (e qui casca l’asino, permettetemi la digressione) da guerra. La prima formidabile macchina bellica era costituita da un carro a due ruote trainate da due cavalli (la biga). Ma la comparsa della quadriga si deve ad un fatto sportivo anziché bellico.
Il primo cavaliere e gli altri
Così nell’antica Grecia, durante le Olimpiadi, si celebravano le vittorie degli auriga con la conseguente quadriga vincitrice. Opere che sono arrivate a noi in modo del tutto alternativo: o solo la quadriga (leggi il gruppo equestre della facciata di San Marco in Venezia), ovvero solo l’auriga (di Delfi, 474 a.C.). Ma il primo pare sia (stato) il Cavaliere di Rampin (560 a.C.) che ha perso la testa (è al Louvre) mentre il corpo, con il frammento del cavallo, è al Museo dell’Acropoli di Atene. Il museo archeologico di Reggio Calabria conserva il più bel gruppo equestre della Magna Grecia giunto fino a noi (scoperto nel 1890 e risalente al V-IV secolo a.C.): i Dioscuri, acroteri del frontone del Santuario di contrada Marasà, presso Locri. Il doppio gruppo è in marmo pario, speculare e simmetrico, coi cavalieri (Castore e Polluce) nell’atto di scendere da cavallo e coi cavalli impennati ma elegantemente sostenuti dai tritoni che si incuneano, con una linea sinuosa, sotto gli animali, assicurando al marmo una buona tenuta: la coda, le gambe posteriori, il pettorale del cavallo (sostenuto dalla testa del tritone), le gambe anteriori per mezzo delle braccia tese in avanti che toccano gli zoccoli del cavallo. In questo modo, narra la leggenda, i Dioscuri apparvero dal mare ai locresi, guidandoli alla vittoria contro Crotone.
La celebre stele di Dexileos commemora una sconfitta, quella che la cavalleria ateniese subì contro Corinto nel 394-393. Nella stele il cavallo si impenna sostenuto dal fondo del rilievo dal quale si stacca con in groppa il cavaliere commemorato mentre sta infliggendo l’ultimo colpo all’avversario.
Contraltare del Marco Aurelio possiamo considerare la statua equestre di Domiziano (81-96 d.C.), rinvenuta nel Sacello degli Augustali di Miseno e conservata al Museo archeologico di Napoli, la quale sottolinea la personalità ambiziosa dell’imperatore che vuole essere ritratto come «dominus et deus». L’imperatore, in sella ad un cavallo impennato, fuso in più parti e poi saldato e ridotto a brandelli dalla furia iconoclasta della «damnatio memoriæ» che il Senato romano scagliò, dopo la morte di Domiziano, per la politica antisenatoria che questi sosteneva. Conseguenza di ciò fu l’abbattimento della enorme statua equestre di bronzo, da lui posta nel Foro e di cui resta solo il basamento.
Nel monumento di Miseno il volto di Domiziano fu asportato e venne sostituito con quello dell’imperatore Nerva, lasciando intatta la parte posteriore della testa e la figura del cavaliere.
Marco Aurelio: un monumento salvo per caso
Saltando l’esperienza di Fidia nei cavalli dei fregi del Partendone, arriviamo, con uno stacco favoloso, al Marco Aurelio imperatore (Roma 121 d.C. Vindobona 180 d.C.), giunto fino a noi perché, durante il Medioevo, fu scambiato per l’imperatore Costantino. Venerato dai fedeli come primo imperatore cristiano e dagli scultori come il massimo esempio sopravvissuto (fino a noi) della statuaria equestre antica e, soprattutto, preso a modello per tutti i gruppi equestri fino al Rinascimento e oltre.
Un recente restauro lo ha presentato come «mamma l’ha fatto», e cioè a cera persa, col metodo indiretto, attraverso l’uso di calchi che hanno permesso la fusione in più parti dell’intera opera e la giunzione dei vari pezzi fusi attraverso la brasatura. Marco Aurelio, vuoto all’interno, monta un cavallo, anch’esso vuoto, della pesante razza pannonica ed è rappresentato in atteggiamento calmo e solenne, con la mano tesa in un gesto imperioso e clemente nello stesso tempo. Nel 1538, la statua fu trasportata in piazza del Campidoglio (oggi vi è una copia) per volere di papa Paolo III e Michelangelo disegnò l’alto piedistallo su cui poggia. Sotto la zampa sollevata del cavallo era la figura di un barbaro vinto che, per ordine dello stesso papa, fu tolta per far divenire la statua un simbolo della cristianità.
Il fatto che, nella lega con cui è stato fatto il Marco Aurelio, manchi del tutto lo stagno è segno che il lavoro è stato fatto in “economia” avendo, il piombo (8,5%) e lo zinco (6%), costi, all’epoca (II secolo d.C.), assai più bassi. Il resto, naturalmente, è di rame (“Cu”, nella restante percentuale). La doratura della statua, realizzata con l’amalgama al mercurio e oro, è tutta salute.
Il bronzetto e i cavalieri di marmo
Modellino d’un supposto monumento equestre in bronzo, anche se appare come un fermacarte, si mostra la statuetta (24 cm) del cosiddetto Carlo Magno, al Museo del Louvre di Parigi. Se il modulo stilistico richiama il Marco Aurelio o qualche altro cavallo (per tacer del cavaliere) visibile intorno all’anno 800 (magari a Roma), esso narra, in sostanza, di una ambizione imperiale, frustrata dalla incapacità tecnica dei toreuti franchi, di realizzare un pezzo di tale impegno. Pare più plausibile, tuttavia, la generalità d’un sovrano carolingio, visti gli accessori (baffi, corona gigliata, fodero della spada), realizzato nel più tardo periodo della Scuola Palatina (sotto Carlo il Calvo).
Dopo questo “bronzetto”, solo il marmo e la pietra ebbero spazio nella statuaria medievale. Dalla commistione (ardita anziché no) di varie pezzatura litiche del «cavaliere», senz’armi, del Duomo di Bamberga (1240 ca); al monumento equestre a Cangrande I della Scala, signore di Verona, celebrato da Dante nel canto XVII del Paradiso (vv. 70-92); al monolito occorso per il gruppo di Bernabò Visconti (Bonino da Campione, 1363, ora al Castello Sforzesco di Milano); al gruppo equestre rappresentante re Ladislao I di Napoli, al sommo di un monumento in marmo, di ben 18 metri, fatto erigere dalla sorella Giovanna II (da maestranze settentrionali), nella chiesa di San Giovanni in Carbonara, tra il 1424 e il 1432. E, per un re morto scomunicato (da Papa Alessandro V), non è poco.
Donatello e il Gattamelata
Capitano generale dell’esercito veneziano, Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, morì nel gennaio del 1443.
La cosa poteva passare del tutto inosservata ai posteri se non fosse che i discendenti (moglie e figlio col permesso della Serenissima) decisero di erigere un monumento al condottiero. A rincarare la dose, si chiamò Donatello all’esecuzione. Donato di Betto Bardi, o, come dicevano tutti, Donatello, aveva studiato come si deve il Marco Aurelio quella volta che era capitato a Roma con, l’allora suo amico, Filippo (Brunelleschi).
Nel Quattrocento, fondere in bronzo con la tecnica della cera persa richiedeva altissima abilità e perizia tecnica e anche un poco di incoscienza che Donato aveva dimostrato avere a sufficienza fondendo il sofferto San Ludovico di Tolosa (1421-1425), ora all’Opera di Santa Croce. Sopra un robusto cavallo da battaglia, Donatello ritrasse il Gattamelata, con tutti gli attributi del caso e, nonostante lo scultore si fosse ispirato alla ritrattistica romana, i committenti furono contenti del ritratto «ad similitudinem […] ipsius magnifici Gattemelatæ». L’operazione era difficilissima e Donatello chiese la collaborazione tecnica d’un campanaio, tale Andrea del Caldiere o Calderaro, il quale, nel 1447, condusse la fusione. L’opera sarà fusa in diversi pezzi, poi saldati col metodo della brasatura. Le difficoltà tecniche dovute al peso di una fusione così grande, non permisero la raffigurazione della zampa levata da terra (come il cavallo del Marco Aurelio o la Quadriga di San Marco a Venezia).
Di necessità si fece virtù, e il cavallo col quale, secondo maligni detrattori, il Gattamelata era solito fuggire la pugna, anziché affrontare il nemico, poggia lo zoccolo sopra una palla di cannone (arma di recente introdotta sui campi di battaglia).
Andrea del Verrocchio e il Colleoni
Un altro capitano di ventura ebbe l’onore del monumento equestre: Bartolomeo Colleoni (morto nel 1475), il quale, da giovane, nella guerra di Venezia contro Milano (1437), era sottoposto al Gattamelata. L’incarico, da parte della Serenissima, fu dato ad Andrea del Verrocchio (con decreto del 30 luglio 1479).
Vasari, nella sua biografia di Andrea Verrocchio, contenuta ne Le vite dei piu eccellenti pittori scultori e architetti, ci informa di una “storiaccia” legata a questo monumento. Quando già il Verrocchio aveva armato il modello per fonderlo in bronzo, la Serenissima gli fa sapere che «mediante il favore d’alcuni gentiluomini» dà mandato a Vellano da Padova di realizzare la figura (del condottiero) e al Verrocchio quella del cavallo. Infuriato da tanto eccesso di campanilismo, Andrea staccò zampe e testa al modello del cavallo a se ne ritornò a Firenze. La Serenissima gli fece sapere che avrebbe tagliato la sua di testa qualora fosse tornato in Venezia. A ciò il Verrocchio rispose che «se ne guarderebbe, perché spiccate che le avevano, non era in loro facoltà appiccare le teste agl’uomini, né una simile alla sua già mai, come a[v]rebbe saputo lui fare di quella che gli avea spiccata al suo cavallo, e più bella». Pare che la risposta piacque ai Dogi, e Andrea tornò.
Ma l’opera rimase incompiuta per la morte dell’artista (1488). Prima di morire, però, aveva chiesto alla Serenissima che la fusione fosse affidata al suo discepolo Lorenzo di Credi. Parole al vento. A Lorenzo si preferì Alessandro Leopardi (o Leopardo), bronzista veneziano, che collocò il gruppo sul basamento in Campo San Giovanni e Paolo, nel 1495, e lo scoprì l’anno successivo con grande concorso di folla, come racconta Marino Sanuto il giovane. L’intervento del Leopardi si limitò alla sola fusione dell’opera e qualche interpolazione senza importanza. La firma, apposta sul sottopancia del cavallo recita: «ALEXANDER LEOPARDUS V. F. OPUS», dove la “F.” si apre come «Fudit» («fuse»), e spiega il tutto.
Giambologna o del magistero tecnico
Non era nuova l’idea di allogare il cavallo a uno scultore e il cavaliere a un altro. Così come avvenne per un’opera che non è arrivata fino a noi: la statua equestre di Niccolò III d’Este, commissionata dal figlio Leonello, nel 1443, e celebrata dal De equo animante di Leon Battista Alberti («AD LEONELLUM FERRARIENSEM PRINCIPEM ET HUMANI GENERIS», recita la dedica del libro scritto interamente in latino). Antonio di Cristoforo realizzò la figura; Niccolò Baroncelli, fece il cavallo. Denominatore comune: erano entrambi di Firenze!
Dopo l’inaugurazione del capolavoro verrocchiesco a Venezia (1496), nessuna altra statua equestre sarà realizzata in Italia fino allo scadere del 1500. Non mancarono certo i progetti! Ma quando per un motivo, quando per un altro, non giunsero mai a conclusione.
E il pensiero giunge preciso agli studi di Leopardo da Vinci, che nel 1482 era giunto a Milano, presso la corte di Ludovico il Moro, annunciando di «dar opera al cavallo di bronzo, che sarà gloria immortale et eterno onore de la felice memoria del Signor vostro padre e de la inclita Casa Sforzesca». Ma le 70 tonnellate di bronzo, che avrebbero dovuto essere utilizzate per la statua, furono impiegate per realizzare i cannoni con i quali il Moro, nella battaglia di Fornovo (1495) ricacciò Carlo VIII di Francia, da dove era venuto.
Sembrava che il destino artistico volesse appiedare i valorosi (forse per mancanza di capitani di ventura adeguati) quando, finalmente, nel 1587, il granduca di Firenze Ferdinando I «ordinò a Giovanni Bologna il fare gli studj per lo cavallo di bronzo lungo sette braccia, sopra cui doveva essere la statua di Cosimo Primo lor padre, per collocarlo in Piazza». Ferdinando I, inoltre, fece costruire, a proprie spese, un grande laboratorio con annessa fonderia. Borgo Pinti, dimora del maestro, fu adeguatamente ingrandito. Per gli studi del cavallo, Giambologna chiese lumi ad alcuni amici pittori (Ludovico Cigoli e Gregorio Pagani) che gli fornirono disegni dell’animale. Alla complessa fusione del gruppo prese parte una miriade di aiuti e specialisti. La direzione della fusione fu data allo specialista veneziano Giovanni Alberghetti il quale, coadiuvato da diciotto artefici (tra questi Antonio Susini), la notte tra il 27 e il 28 settembre del 1591 (giorno dei Santi Cosma e Damiano) eseguì la colata di bronzo. Il 5 dicembre si iniziarono a scavare le fondamenta del monumento, in Piazza della Signoria. La pesatura delle due statue venne effettuata il 6 maggio del 1594. Il cavallo pesava 15.438 libbre mentre il cavaliere 7.716 libbre. Il cavallo, il 7 maggio successivo, fu condotto in piazza e innalzato tre giorno dopo. Quindi toccò al cavaliere salire in groppa il 14 successivo. Il 10 giugno il monumento fu aperto al pubblico.
Il trotto leggero del cavallo è realizzato in maniera che siano soltanto due zampe a toccare per terra, mentre la zampa anteriore destra è alzata e la posteriore sinistra appena sollevata. Erano ormai maturi i tempi per la realizzazione d’un cavallo rampante (per tacer del cavaliere). Per ora, questo sogno, rimaneva limitato a piccoli bronzetti o a «cavallini» presentati ai sovrani committenti come grazioso promemoria del monumento da farsi o in preparazione.
Pietro Tacca, lo scienziato, il cavallo rampante
Il 16 maggio 1598, Pietro Tacca figura tra i giovani di bottega del Giambologna, intento a rinettare i rilievi realizzati per ornare il piedistallo del monumento equestre di Cosimo I per la piazza della Signoria a Firenze.
Tacca riprende i dettami del maestro e ne eredita anche la fonderia. Il livello tecnico raggiunto permetteva di realizzare getti dallo spessore esiguo e senza difetti tecnici. L’epoca pionieristica, inaugurata da Donatello, legata alla metallurgia artistica, era tramontata per sempre. Ma ancora un neo impediva lo svolgersi della piena maturità tecnica della fusione in bronzo e cioè il monumento equestre con cavallo impennato (due gambe poggianti!).
L’occasione arrivò con la commissione, da parte della corte spagnola, del monumento equestre di Filippo IV. L’idea iniziale di Pietro era il solito destriero “passante”. L’artista aveva già approntato un modello in gesso quando dalla Spagna arrivò la richiesta di un monumento con un cavallo rampante. E qui le cose iniziarono a complicarsi, perché di cavalli impennati, fino a quel momento, erano stati gettati solo come modelli alti poco meno di un metro, memori degli esperimenti leonardeschi e di tante creazioni effimere realizzate per tutto il Cinquecento.
Ma una scultura di proporzioni monumentali è ben altra cosa. Ben lo sapeva il Tacca! Ed ecco che, per risolvere l’angustiante problema di statica, si rivolge, addirittura, a Galileo Galilei. E il grande fisico, pare, gli abbia risposto, secondo la testimonianza di Filippo Baldinucci, primo biografo dello scultore: «Nelle prime si ha che il Galileo dicesse, esser questa cosa impossibile; ma noi ci accostiamo a quanto si ha delle seconde, cioè che non solo al Galileo non paresse impossibile, ma che egli medesimo suggerisse al Tacca una facilissima e mirabile maniera di reggervelo, con far posar le gambe di dietro sopra un quadrato posato a sghembo, dall’uno de’ lati del quale è congiunta una travetta, che s’estende quasi per la lunghezza dell’aggetto del cavallo, e puntando in terra proibisce allo stesso aggetto il levarsi in capo la pianta del posare del cavallo».
Alla soluzione proposta da Galileo, Tacca contribuì con il suo magistero tecnico, perfezionando la tecnica del getto e riuscendo nella realizzazione di quel monumento che ancora oggi si può ammirare nella Plaza de Oriente, a Madrid. La tecnica aveva superato l’ultimo scoglio: la soluzione massima possibile, cioè realizzare il monumento equestre sulle due zampe del cavallo.
Modello che ebbe grande fortuna. Del cavaliere non narreremo grandi gesta solo che, una volta impostato il modello del cavallo, bastò semplicemente cambiarne la testa per soddisfare la committenza. Come accadde, per esempio, nel 1732, a Vincenzo e Giulio Foggini, figli di Giovanni Battista Foggini, scultore fiorentino. I due fratelli ripreso il modello paterno utilizzato per ritrarre l’imperatore Giuseppe I d’Asburgo (oggi al Bayerisches Nationalmuseum di Monaco), realizzando il ritratto di don Carlo di Borbone (futuro Carlo III, re di Napoli), figlio del re di Spagna Filippo V e di Elisabetta Farnese, che, per un breve tempo, fu l’erede designato al trono di Toscana. Ai fratelli Foggini bastò cambiare la testa-ritratto del cavaliere. Quindi si firmarono, nel sottopancia del cavallo, come già usava fare il Giambologna, «Vincentius et Iulius Foggini faciebant Florentiæ MDCCXXXII».
Quasi una conclusione
Il cavallo impennato si risolse, la ricerca tecnica continuò.
Francesco Mochi, anch’egli uscito dalla bottega del Giambologna, realizza, nei primi decenni del XVII secolo, i monumenti equestri per Ranuccio e Alessandro Farnese (Piacenza, piazza Cavalli). Dapprima insieme a Marcello Manachi, in seguito coadiuvato da Orazio Alberici e Lorenzo Lancisi. I cavalli furono fusi in un sol getto. Cavalli su tre zampe dalle dimensioni colossali. Ma il cavallo di Ranuccio Farnese, fuso nel 1618, risultò imperfetto nella testa, che mancava per metà (compresi un occhio e un orecchio), lacuna che lo scultore sanò agevolmente.
Cavallo e cavaliere continuarono a essere rappresentati, sempre blasonatissimi, visti i costi elevati e vista la simbologia conseguente. Per onorare degnamente Luigi XIV, re di Francia, si eseguì un monumento equestre, con tanto di pubblicazione del progetto sull’Encyclopedie (Boffrand, 1743) secondo il progetto di Girardon, con la scelta temeraria, e un po’ presuntuosa, di fondere cavallo e cavaliere in un pezzo solo, volendo abbreviare e semplificare i metodi antichi.
La cosa si fece. Ma al termine non fu possibile eliminare l’anima interna e i suoi sostegni, rimasti inglobati dentro la statua; inoltre fu preclusa ogni possibilità di correggere dall’interno eventuali difetti della colata di metallo. Per tacere del peso enorme che tale sistema (bronzo più struttura interna) comportava.
Il tutto fu distrutto dalla Rivoluzione francese: i «cittadini» non amavano i monumenti equestri siano stati essi impennati o “passanti”, coi cavalli su tre, su due o su quattro zampe. I cavalieri, per prudenza, andarono a piedi. La storia continua.
L’immagine: Centauro: il sonno a dondolo (2002, terracotta patinata, collezione privata, Genova) dello stesso Francesco Cento. Per ammirarne altre opere, si può navigare nel suo sito personale: http://www.francescocento.it/index.html.
Francesco Cento
(LM EXTRA n. 20, 15 aprile 2010, supplemento a LucidaMente, anno V, n. 52, aprile 2010)