Commentando il celebre episodio biblico di Abramo, Jacques Derrida scrive che «l’altro non deve darci alcuna ragione, né renderci conto di nulla, non deve condividere le sue ragioni con noi. Questo Dio nascosto, segreto, separato, assente o misterioso, decide senza rivelare le sue proprie ragioni, esige da Abramo il gesto più crudele ed impossibile, il più insostenibile» (Donare la morte, Milano, Jaca Book, 2002), ovvero il sacrificio del suo unico figlio Isacco.
E poco importa se alla fine l’olocausto non verrà commesso, perché ciò che conta è che la terribile richiesta sia stata fatta e che Abramo non abbia esitato neppure un attimo ad accettare l’immotivato comando impartitogli dal suo Dio, al quale lo lega un vincolo di assoluta obbedienza.
Il racconto di Abramo (Gen 22), paradigmatico del rapporto tra Dio e l’uomo, ci rinvia a un tema fondamentale già formulato alle origini della nostra cultura e precisamente all’asserzione platonica della bontà e innocenza del demiurgo rispetto ai mali del mondo, col che viene fissato il presupposto di ogni successiva riflessione teologica e filosofica fondata sull’idea di un Dio fatto di bontà e tenerezza, il quale, non determinando gli uomini ad alcunché, li lascia liberi di scegliere tra il bene e il male. Ma v’è davvero la possibilità che Abramo decida, nel segno della libertà, di anteporre la propria paternità a quella suprema del padre di tutti gli uomini? Il drammatico climax che caratterizza questo e molti altri racconti contenuti nelle Scritture offre il ritratto di un Dio iracondo e crudele, esigente e possessivo, dei cui comportamenti non è dato conoscere nulla, se non la sua totale indifferenza rispetto all’eccesso di male che affligge il mondo nel quale ha posto gli uomini da lui creati.
Di fronte allo scandalo del male, la cui presenza appare incompatibile con l’esistenza di un Dio onnipotente e misericordioso, le diverse “strategie di difesa e anche d’immunizzazione dal male” offerte dalle religioni, in particolare da quella ebraico-cristiana, nonché dalla tradizione filosofica occidentale, secondo Claudio Ciancio (Del male e di Dio, Brescia, Morcelliana, 2006), si rivelano fragili e inadeguate ad “approntare una spiegazione rassicurante o consolante o liberante”. C’è un filone letterario che ha colto questo carattere aporetico dell’esperienza religiosa e che ha trovato nel capolavoro di Dostoevskij, I fratelli Karamazov, una delle espressioni più alte; la rivolta di Ivan verso ogni tentativo di giustificare il male innocente si rivela alla fine presupposto di una religiosità autenticamente intrisa di quel senso del mistero che circonda l’universo e l’uomo. È all’interno di questa tradizione letteraria ma procedendo nel senso di una radicalizzazione dei dubbi del personaggio dostoevskijano, che si muove lo scrittore portoghese scomparso di recente José Saramago, premio Nobel per la letteratura (1998), il quale, riprendendo l’originaria idea di Platone, dichiara Dio innocente, innocente come può esserlo soltanto «qualcosa che non esiste, che non è esistito né esisterà mai, innocente d’aver creato un universo intero per collocarvi degli esseri capaci di commettere i più grandi crimini, per poi venire a giustificarsi dicendo che sono celebrazioni del suo potere e della sua gloria» (Uccidere in nome di un Dio, ne la Repubblica, 20 settembre 2001).
Di questo ateismo, al cui fondo si agita la tormentosa consapevolezza della tragica condizione umana, sono intrise le pagine del suo grande romanzo Il vangelo secondo Gesù Cristo (Milano, Feltrinelli, pp. 352, euro 9,50), che, reinterpretando la figura del Messia in chiave tutta umana, ha suscitato un acceso dibattito non solo in Portogallo, dove il libro è uscito in prima edizione nel 1990 e la cui virulenza ha costretto Saramago a trasferirsi alle Canarie nelle quali poi è morto, ma anche in tutti gli altri paesi nei quali è stato tradotto. La blasfemia di questo “Vangelo”, che per molti aspetti segue il racconto della tradizione, risiederebbe nel modo in cui l’autore rappresenta il rapporto tra Dio e Gesù, un rapporto che si rivela quanto mai distruttivo, essendo fondato sul dominio schiacciante del figlio da parte di un padre crudele e senza scrupoli. Ma solo al credente che «si accontenta di risposte facili e a cui basta ripetere ciò che gli è stato detto fin da bambino» (Norberto Bobbio, Perché non riesco a credere, ne la Repubblica, 30 aprile 2000), questo romanzo può apparire blasfemo. In verità, non c’è intento dissacratorio in Saramago, quanto piuttosto un certo modo di concepire l’opera letteraria quale luogo di desacralizzazione della materia di cui si sostanziano le grandi questioni che ineriscono all’uomo, in questo caso particolare al suo rapporto con l’assoluto inoggettivabile. D’altro canto, «una certa dose di negazione dovrebbe essere patrimonio di ogni uomo che riflette, perché la realtà che si tenta di afferrare con il termine Dio è sempre più grande di tutte le formule umane, comprese quelle cattoliche» (Corrado Augias-Vito Mancuso, Disputa su Dio e dintorni, Milano, Mondadori, 2009).
È nel quadro di una rappresentazione storico-mondana che Gesù diventa l’interprete delle inquietudini e delle contraddizioni dell’uomo moderno, colto nella sua disperata quanto vana ricerca del proprio senso della vita. Gesù, che ignora la sua origine divina, è stato predestinato dal padre celeste ad essere lo strumento attraverso il quale poter realizzare le proprie brame di potere e gloria, sicché egli, non potendo scegliere ma essendo stato scelto, deve soggiacere alla volontà di un essere ambizioso e malvagio, il cui unico scopo è quello di allargare il suo dominio sul mondo e sugli uomini. Prima del tragico e fatale epilogo della croce, Gesù compie un lungo viaggio che, lungi dall’essere semplicemente spostamento nello spazio, è soprattutto desiderio di conoscenza, ricerca di sé e catarsi attraverso una serie di prove rivelatrici però di un destino già segnato e la cui ineluttabilità è preannunciata dalla grave colpa commessa da Giuseppe prima della sua nascita, quella di aver taciuto il segreto carpito ai Romani dell’imminente strage ordinata da Erode. Giuseppe espierà la sua colpa morendo sulla croce. Lungo il viaggio, durante il quale si accompagna a un pastore che in realtà è il diavolo, Gesù incontra il suo vero padre due volte: nel primo incontro, il Signore esige dal figlio la riparazione di un inaudito atto di ribellione contro la sua volontà, ovvero il sacrificio dell’agnello pasquale che il giovane si era rifiutato d’immolare e che avrebbe dovuto suggellare lo scellerato patto con il padre; nel secondo, Gesù, uscito in barca da solo per pescare, vede apparire Dio in mezzo alla fittissima nebbia che avvolge il lago, e subito ingaggia con lui un drammatico faccia a faccia.
È il momento in cui Dio si rivela per quello che è veramente: un essere doppio, pericoloso e crudele, la cui natura perversa ha bisogno del sangue degli innocenti perché un giorno la sua Chiesa possa nascere e dominare il mondo. Il romanzo si chiude con la terribile immagine di Dio che dal cielo osserva compiaciuto il figlio crocifisso, mentre Gesù, ormai consapevole di essere stato soltanto un fantoccio nelle mani di un padre rivelatosi come non amore, chiede perdono agli uomini per i mali futuri che egli arrecherà loro. Da simbolo di redenzione e salvezza, la croce diventa negazione del fondamento stesso di qualunque religione, ossia della possibilità che l’uomo possa essere salvato, e la tragica morte di Cristo, sottratta all’orizzonte della fede, epifania del fallimento della ribellione esistenziale. Ben lontano dall’essere blasfemo, la ricchezza di questo romanzo sta tutta nella profonda spiritualità di cui il lettore libero da dogmatismi può fare esperienza ad ogni pagina. Si tratta di capire che la spiritualità non ha necessariamente a che fare con le religioni, bensì, come afferma André Comte-Sponville, «è il nostro rapporto finito con l’infinito o l’immensità, la nostra esperienza temporale con l’eternità, il nostro entrare relativo nell’assoluto» (Lo spirito dell’ateismo. Introduzione ad una spiritualità senza Dio, Milano, Ponte alle Grazie, 2007).
L’immagine: la copertina de Il Vangelo secondo Cristo nell’edizione Universale Economica Feltrinelli.
Loretta Pistilli
(Lucidamente, anno V, n. 60, dicembre 2010)