«Gli oligarchi si annidano e operano ovunque, anche tra di noi. Questi comandano nell’oscurità, preferiscono non apparire, lasciano fare ai piccoli faccendieri locali della politica e dell’economia e seguono l’odore del denaro, cercando di fare affari dovunque e comunque, al di sopra e anche contro gli stessi interessi della comunità in cui vivono».
Parole di rabbia. Parole di delusione, quasi di rassegnazione. Ubaldo Schifino, nel suo libro Un Partito senza se stesso. Una sconfitta ideale all’ombra delle oligarchie. La Questione meridionale e la sua classe dirigente (Prefazione di Fulvio Mazza, Introduzione di Rossana Caccavo, Intervento di Gianni Pittella, Città del Sole Edizioni, pp. 168, euro 10,00), usa toni duri, aspri, per descrivere una realtà, la sua, quella della sua città, Crotone, e quella del suo partito, il Pd, che evidentemente non gli ha dato quello che lui si aspettava. Sullo sfondo, infatti, vi è la “disavventura elettorale” di un uomo, l’autore, e di un’intera classe dirigente, incapace di raggiungere quell’unità che le avrebbe probabilmente evitato una durissima sconfitta.
La caduta della “Stalingrado calabrese”
Siamo a Crotone, città rossa per eccellenza in Calabria. Nella primavera del 2009 sono di scena le elezioni per il presidente della Provincia. Potrebbero, anzi dovrebbero, essere una passeggiata per chi qui vince e ha vinto sempre, o quasi. Ma il centrosinistra “questa volta” decide di complicarsi la vita e presentare cinque candidati diversi (alla bolognese, per intendersi), tra cui Ubaldo Schifino, noto politico calabrese, in precedenza assessore regionale e vicepresidente del Consiglio regionale.
Così la sconfitta appare inevitabile: giunto al ballottaggio con Stanislao Zurlo, candidato unico del centrodestra, Schifino perde di pochi punti percentuali una partita quasi vinta in partenza. È il crollo di Stalingrado, colpita e affondata dal fuoco bruciante del frazionismo e dalla potenza schiacciante dell’astensionismo.
Ma, a ben vedere, secondo l’autore, alla base c’è dell’altro: «L’inadeguatezza di una certa, troppa, parte della dirigenza del Pd locale e nazionale». Per dirla facile, un partito pieno di contraddizioni, pieno di divisioni e privo di spirito di corpo: un partito senza se stesso.
I nemici di Schifino
Dalla dichiarazione iniziale della candidatura, alle agognate primarie, al ballottaggio finale e alla sconfitta che “ancora brucia nel corpo vivo del Pd”. Il percorso è completo, la sconfitta anche!
Schifino sembra avere ben chiaro in testa quali sono i suoi nemici. È quel potere occulto (vedi citazione sopra) che, tramite i vecchi adepti, prolifera e si ramifica in tutti i settori della società: l’economia, le amministrazioni, i quadri aziendali, la stampa. Gli interessi sono tanti, i soldi in gioco pure. Ora vanno da una parte, ora dall’altra. Ora si rivolgono a un business (la “monnezza”), ora all’altro (i residui tossici): «Appare evidente il tentativo di queste forze affaristiche e speculative d’inserirsi nel grande affare della bonifica attraverso il cambio di destinazione urbanistico e l’inosservanza dei vincoli idrogeologici ed archeologici».
I partiti e le lobbies affaristiche, la massoneria e la malavita sono i veri baluardi della crisi politica e civica del Paese: «Forze che stanno all’ombra del sistema, ma lo controllano e lo gestiscono». A tutto questo si aggiunge il partito, quel partito.
Quale speranza?
La sconfitta era nell’aria da un po’: «Nel momento finale della campagna elettorale, quando bisognava far prevalere la ragione, il senso di appartenenza al Partito e gli interessi della comunità si sono sfarinati, persi. Chi ha disarmato intempestivamente o volontariamente i suoi militanti, chi ha preferito invitare gli elettori ad astenersi o a dispetto a votare per il centrodestra e, infine, chi continuava a guidare un Partito inesistente e, comunque, dormiente».
Le parole sono forti, l’analisi è brutale. Ma evidentemente essa vuole andare oltre la questione locale. Vuole toccare il nervo scoperto. Vuole toccare quel pluralismo interno del Partito democratico che è finito per trasformarsi in un frazionismo, in un correntismo insostenibile.
La speranza è nella nuova via, nel nuovo segretario: Pier Luigi Bersani. L’uomo nuovo, che può e deve rifondare il partito dal suo interno, percorrendo quella strada di unità e di cucitura che è stata fatale a Schifino e ai suoi colleghi: «Un Partito, dunque, con una chiara e definita identità, con una nuova linea strategica che unisca la battaglia per la questione democratica a quella per la questione sociale».
Sono piene di speranza le parole dell’autore, intrise di quell’ambizione partitica e di quella vanità innata che la sinistra italiana non abbandonerà mai. Le ultime parole, prima dei ringraziamenti, sono inequivocabili: «Tutto questo lascia ben sperare sulle concrete possibilità di crescita politica ed elettorale del Pd». Siamo alla fine del 2009. Le regionali 2010 devono ancora arrivare…
L’immagine: la copertina del libro di Ubaldo Schifino.
Simone Jacca
(Lucidamente, anno V, n. 55, luglio 2010)