Nella Prima lettera ai Corinzi la croce di Cristo è definita “scandalo” e “follia”. Queste espressioni sottolineano la netta opposizione tra la fede, che riconosce la presenza di Dio in un corpo d’uomo sofferente, condannato a una morte ignominiosa, e la sapienza umana, che associa l’idea del divino all’onnipotenza, all’incorporeità, all’imperturbabilità.
Oggi le gerarchie cattoliche ribadiscono l’assoluta necessità che l’immagine di quell’uomo agonizzante, riprodotta in decine di migliaia di copie fatte in serie, sia affissa nelle aule scolastiche, a testimoniare le “radici cristiane” della nostra cultura.
Mi stupisce che i credenti che sostengono questa rivendicazione non si rendano conto che, riducendo l’icona di Cristo in croce a un rassicurante simbolo delle tradizioni codificate e dell’ordine costituito, si finisce per svuotarla del suo carattere sconvolgente, e falsarne drasticamente il significato. Ho insegnato per molti anni (fino all’ultimo concordato) con il brutto crocifisso d’ordinanza, prescritto per tutte le scuole d’Italia come segnacolo della “religione di stato”, appeso alle mie spalle. Non mi è parso che questa presenza suscitasse nei miei alunni riflessioni profonde sul destino umano e sul senso della vita. Mi è sembrato anzi che il depositarsi quotidiano di sguardi distratti degradasse il crocifisso al rango di una banale suppellettile, paragonabile agli attaccapanni o alla lavagna, con l’aggravante di non svolgere alcuna funzione pratica. Nessuno si accorgeva che il nostro trantran didattico scorreva di fronte alla rappresentazione di una tragica agonia. Ridotta a insignificante ornamento standardizzato imposto per legge, la croce di Cristo non recava traccia del suo carattere originario di “scandalo” e di “follia”.
Ancora più grave mi sembra che, da parte delle gerarchie di una chiesa cristiana, si insista sull’identificazione tra quel simbolo e la nostra tradizione culturale. Nessuno può negare che l’arte, la letteratura, il pensiero dell’Occidente siano profondamente segnati dal cristianesimo. Ma non tutto ciò che si è compiuto in nome di Cristo è stato eticamente accettabile. La traccia storica dei dogmi e dei simboli cristiani è depositata nella Commedia di Dante come nella vicenda delle crociate, nell’opera di Michelangelo come nei roghi della Santa Inquisizione. Per secoli le comunità ebraiche e le altre minoranze religiose hanno visto nella croce un simbolo di persecuzione più che di amore fraterno. E si potrebbe continuare a lungo.
Insomma, l’esperienza storica dovrebbe aver insegnato a noi cristiani che non è il caso di identificare i nostri progetti, le nostre imprese, i nostri modelli di società con il nome e la volontà del Dio nel quale crediamo. Il ricordo di quell’uomo crocefisso dal potere politico e religioso non merita di essere utilizzato come marca identitaria che contrassegna un territorio, bandiera delle ragioni di una cultura contro altre culture. Dal punto di vista della fede cristiana la riduzione del crocefisso a simbolo della “nostra” tradizione è una banalizzazione e uno snaturamento. Dal punto di vista sociale è un’indebita intrusione confessionale nello spazio pubblico, che appartiene ugualmente a cristiani e non cristiani, credenti e non credenti.
L’immagine: Incoronazione di spine, o Cristo deriso (1485 circa, olio su tavola, Londra, National Gallery) di Jeroen Van Aeken, meglio noto come Hieronymus Bosch (’s-Hertogenbosch, 1450-1516).
Guido Armellini
(LM EXTRA n. 17, 10 novembre 2009, supplemento a LucidaMente, anno IV, n. 47, novembre 2009)