Se i quotidiani non ripenseranno contenuti e modello di “business” saranno condannati all’irrilevanza. Al di là del fattore Internet, il calo di vendite è drammatico
In Italia si leggono sempre meno quotidiani. Non è una novità, ma gli ultimi dati di Accertamenti diffusione stampa (Ads) parlano chiaro: in termini di diffusione totale (cartaceo e digitale), l’unico quotidiano che ha una crescita significativa è Avvenire – +6,57% a settembre 2021 rispetto alle stime di agosto. Ci sono giornali che crescono, pur se marginalmente: LaVerità diretta da Maurizio Belpietro e Il Sole 24 Ore di Confindustria, rispettivamente di alcune centinaia e alcune decine di copie. E ce ne sono altri la cui circolazione è scesa in modo significativo: la Repubblica (-5,70%), Il Messaggero (-5,40%), il Giornale (-5,39%), solo per citarne alcuni.
Non potrebbe essere altrimenti: “social media” e “fake news” hanno stravolto il panorama editoriale italiano. Internet ha acquisito il monopolio dell’informazione/formazione dell’opinione pubblica, relegando il giornalismo della carta stampata a un ruolo minoritario. Ormai il dibattito passa per i thread su Twitter, e sono gli influencer che dettano l’agenda della politica. E al giornalismo tradizionale, rispettoso della deontologia della professione, non resta che constatare attonito la morte dell’informazione onesta e imparziale, sommersa dalle balle non verificate che il web contribuisce a far circolare. La spiegazione è davvero così semplice? Certamente il digitale ha fatto calare drasticamente la quota di pubblicità con la quale gli inserzionisti finanziavano i quotidiani cartacei. Ma non è Internet che – come scrisse Nicholas Carr su The Atlantic nel lontano 2008 – ci ha reso «stupidi», passivi trangugiatori di un’informazione da fast food, preconfezionata, di qualità scadente e, nei casi peggiori, – deliberatamente avvelenata dalle logiche delle reti sociali online. Al contrario, se le persone smettono di comprare un certo oggetto è perché non ne avvertono più l’utilità. E se (quasi) nessuno compra più i quotidiani, né in forma digitale né tanto meno cartacea, significa (anche) che ciò che contengono non è più rilevante.
E allora bisognerebbe considerare quello che un lettore trova ogni mattina sulla stampa quotidiana d’Italia. Opinioni tra le più becere o banali, convinzioni personali che vengono spacciate per verità fattuali, titoli che solleticano gli istinti più bassi solo per vendere una copia in più in edicola, sensazionalismi variamente assortiti. Si potrebbero definire peccati di gioventù – inezie, nella lotta per far emergere la verità – se non fosse per la veneranda età degli opinion leader che continuano a commetterli. Ma sulle pagine dei quotidiani si trovano anche una terribile confusione fra correlazione e causalità, numeri trattati come armi politiche – e come tali strattonati a piacimento da una parte e dall’altra – e il genere (prediletto) del retroscenismo che si avvicina pericolosamente alla dietrologia.
Insomma, si può scrivere di cose che non hanno riscontri fattuali, basta addossarne la responsabilità a non ben precisate voci di corridoio. Così come si può spacciare il commercio di carte giudiziarie coperte da segreto istruttorio come giornalismo d’inchiesta. E, a sera, dopo una lunga giornata in redazione, ci si accalca nei talk per fare a gara con i politici a chi urla di più. Nobilitando il tutto, per cecità o ipocrisia, con la favola del “cane da guardia” della democrazia. In che cosa questo è differente dalle perverse dinamiche che spesso si osservano sui social? Nel prezzo: iscriversi a Facebook o Twitter è gratuito. E allora, pena la loro condanna definitiva, i quotidiani dovrebbero finirla di rincorrere la viralità e perseguire sistematicamente l’avvelenamento del dibattito pubblico. Se vuole sopravvivere, e continuare a svolgere il suo ruolo cardine per la democrazia, il giornalismo tradizionale deve smettere di essere ciò che è stato almeno da una trentina d’anni a questa parte. Ripensare drasticamente il proprio modello di business tanto quanto il proprio ruolo nell’influenzare l’opinione pubblica. Le alternative, come dimostrano le sottoscrizioni digitali al New York Times in costante crescita, non mancano. Sempre che non si sia troppo impegnati nella zuffa quotidiana, per un pugno di like.
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Edoardo Anziano
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 192, dicembre 2021)