A centocinquanta anni dalla rivoluzione che determinò la nascita del primo governo socialista della storia, si mantiene sempre vivo l’interesse per un avvenimento assurto a emblema delle istanze di emancipazione degli oppressi
Il 18 marzo 1871 si costituì in Francia la Comune di Parigi, il primo governo socialista della storia, durato poco più di due mesi. Ci sembra doveroso, a distanza di 150 anni, ricordare un evento che – nonostante i tratti utopici e l’esito infausto – risultò talmente importante da fungere come «potente stimolo per il movimento operaio di ogni nazione, per il quale il 1871 segnò l’inizio di una nuova fase di espansione e di sviluppo politico e organizzativo» (Rosario Villari, Storia dell’Europa contemporanea, Laterza, p. 292).
La rivoluzione parigina deflagrò nel corso della Guerra franco-prussiana, provocata dalla contesa per il trono di Spagna rimasto vacante dopo la deposizione di Isabella II di Borbone. Il maggiore pretendente alla corona fu il principe Leopoldo di Hohenzollern-Sigmaringen, parente del re di Prussia Guglielmo I. L’imperatore Napoleone III, temendo l’accerchiamento della Francia, pretese la rinuncia formale di Leopoldo e inviò in Prussia l’ambasciatore Vincent Benedetti per ottenere da Guglielmo I l’impegno ufficiale a non proporre altri candidati. Il 13 luglio 1870 il re incontrò Benedetti nella città renana di Ems e ne respinse garbatamente le richieste. Ma l’astuto quanto subdolo primo ministro prussiano Otto von Bismarck – consapevole della schiacciante superiorità del proprio esercito – riuscì a creare ad arte l’incidente diplomatico che scatenò la guerra: rese pubblico un telegramma relativo al colloquio di Ems, dopo averlo però falsificato con frasi irriguardose nei confronti dell’ambasciatore che indussero Napoleone III ad aprire le ostilità. Il 2 settembre l’esercito francese venne sbaragliato a Sedan e l’imperatore abdicò, consentendo la nascita della Terza Repubblica (vedi Ludovico Testa, I falsi che fecero la storia: il dispaccio di Ems, in https://aulalettere.scuola.zanichelli.it).
Le operazioni militari proseguirono con il lungo assedio di Parigi e si conclusero il 28 gennaio 1871, allorché il nuovo governo francese chiese l’armistizio, firmando in seguito il gravoso trattato di pace di Francoforte. Il 18 marzo il popolo parigino insorse contro l’Assemblea nazionale costituente, insediatasi in quei giorni a Versailles, che aveva mandato alcuni reparti militari a requisire l’artiglieria in dotazione alla capitale. La rivolta fu sostenuta dai 400 mila combattenti della Guardia nazionale, i quali si rifiutarono di obbedire agli ordini di Adolphe Thiers – capo del governo versagliese – e occuparono i punti nevralgici della città. I delegati della Guardia nazionale nominarono poi un Comitato centrale, con sede all’Hotel de Ville, che assunse il potere fino al 26 marzo, quando fu eletto un Consiglio comunale di 85 membri, in gran parte composto da operai e piccolo-borghesi (vedi Diego Bertozzi, 1871: tremano i tiranni europei. Da Parigi vento di rivoluzione, in win.storiain.net).
La Comune di Parigi, proclamata il 28 marzo, si organizzò secondo principi egalitari e laici, realizzando in breve tempo audaci riforme politico-sociali: l’abolizione dell’esercito permanente, l’adozione del suffragio universale, la revocabilità dei consiglieri municipali, il federalismo amministrativo, la separazione tra Stato e Chiesa, la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici, l’istruzione obbligatoria e gratuita, l’abolizione del lavoro notturno, la creazione di cooperative industriali e rurali, la fissazione del salario minimo e massimo, l’elezione di giudici e magistrati, la libertà di stampa e di espressione, il riconoscimento dei figli illegittimi, la validità dei matrimoni informali, l’emancipazione femminile. I comunardi si distinsero inoltre per altri significativi atti, come la distruzione pubblica della ghigliottina – anche se la pena di morte rimase in vigore per le spie e i traditori – e la demolizione della colonna della Vittoria di place Vendôme, simbolo del bonapartismo. La proprietà privata non fu però completamente abolita: non vennero requisiti, infatti, i capitali depositati nella Banca di Francia, che continuò a finanziare l’esercito di Versailles.
Il 2 aprile Thiers, temendo che l’esempio di Parigi si potesse estendere al resto della nazione, inviò circa 10 mila soldati per conquistare la capitale, ma l’esercito governativo fu respinto dalla Guardia nazionale che tentò a sua volta di occupare senza successo Versailles. Il 1° maggio i parigini, per arginare una controffensiva degli avversari, costituirono un Comitato di salute pubblica che però non riuscì a salvare la rivoluzione. Il crollo della Comune, infatti, avvenne poco tempo dopo: circa 100 mila soldati versagliesi – coadiuvati dall’esercito prussiano, rimasto nei sobborghi di Parigi – invasero la capitale e nella “settimana di sangue” (21-28 maggio) massacrarono i rivoltosi che tentarono invano di difendersi dietro le barricate. La repressione fu durissima e provocò tra 20 mila e 40 mila morti, mentre circa 5 mila comunardi sfuggirono alle persecuzioni ed emigrarono all’estero. Gli altri sopravvissuti subirono punizioni molto severe: 28 furono fucilati, 7.696 deportati in Nuova Caledonia, 4.631 reclusi in carcere e 322 esiliati (vedi La Comune di Parigi (1871), in www.anarcopedia.org).
Alla Comune parigina aderirono le principali componenti politiche rivoluzionarie dell’Ottocento. La maggioranza dei suoi capi (Casimir Bouis, Frédéric Cournet, Gaston Da Costa, Émile Eudes, Théophile Ferré, Gustave Flourens, Ernest Granger, Alphonse Humbert, Victor Jaclard, Eugène Protot, Raoul Rigault, Gustave Tridon, Édouard Vaillantsegui) seguiva le idee comuniste e cospirative di Louis-Auguste Blanqui, mentre un altro cospicuo gruppo (Augustin Avrial, Charles Beslay, Francis Jourde, Charles Longuet, Benoît Malon, Albert Theisz, Eugène Varlin, Auguste Vermorel) condivideva il programma politico di Pierre-Joseph Proudhon, fautore della piccola proprietà contadina e artigiana. Furono comunque molto attivi anche i militanti anarchici (Gustave Lefrançais, André Léo, Louise Michel, Élisée Reclus), i neogiacobini (Louis Charles Delescluze, Charles Ferdinand Gambon, Jules Miot, Félix Pyat) e i marxisti (Élisabeth Dmitrieff, Leó Frankel, Prosper-Olivier Lissagaray, Auguste Serraillier).
I giudizi degli storici sull’esperimento comunardo sono stati antitetici tra loro: da un lato, gli intellettuali conservatori e liberali (Alexander Dumas figlio, Gustave Flaubert, Théophile Gautier, ecc.) ne hanno in genere stigmatizzato gli eccessi di violenza; dall’altro, i pensatori anarchici, socialisti e comunisti (Michail Bakunin, Jules Guesde, Karl Marx, ecc.) l’hanno celebrato come il fulgido esempio di una società senza classi. Anche nell’Italia odierna non manca l’interesse per gli eventi parigini del 1871, come testimoniano i recenti articoli di Francesco Borgonovo, La Comune, madre di tutte le ribellioni, in Panorama, anno IX, n. 4 (1649), 20 gennaio 2021, pp. 72-74, e di Roberto Finelli La Comune di Parigi, una liberazione di spazio e tempo, in https://ilmanifesto.it. L’avventura libertaria della Comune di Parigi rimane un modello di riferimento ideale per coloro che auspicano una società migliore, più equa sul piano economico e in grado di garantire pienamente i diritti dei cittadini.
Le immagini: barricata parigina di boulevard Voltaire (fonte: www.wikipedia.org).
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno XVI, n.183, marzo 2021)