Immersi in un mondo dominato dal Male e dall’inganno, producono fiumi di parole e ragionamenti per affermare la Verità e la propria innocenza. Inutilmente
A distanza di decenni abbiamo compiuto l’impresa di rileggere quasi tutta la produzione letteraria di Franz Kafka. Pur essendo cambiati – come sempre succede a tutti – i ricordi e le sensazioni di un tempo, resta intatto l’incommensurabile fascino dell’opera, seppure frammentaria e spesso incompiuta, del narratore praghese. Infatti, tanto si potrebbe (ancora) dire sulle sue opere e si potrebbero coglierne ancora altre molteplici sfaccettature, oltre quelle già evidenziate dalla sterminata saggistica critica.
In questo nostro breve contributo, vorremmo accennare alle suggestioni che la rilettura ci ha suscitato, ripercorrendone alcune tematiche.
La purezza di fronte alla malvagità e alla corruzione
In primo luogo colpisce l’instancabile volontà dei protagonisti dei suoi romanzi, ma anche di tanti suoi racconti, di reclamare Giustizia e Verità, di palesare la propria innocenza o, perlomeno, le proprie buone intenzioni. Una vastissima processione di novelli don Chisciotte.
L’uomo di Kafka, infatti, è un essere semplice, puro, innocente, che crede nella Giustizia e nella Bontà degli uomini. Scrive Roberto Fertonani nell’Introduzione ad America (Arnoldo Mondadori, Milano 1976) che Karl Rossmann, l’adolescente protagonista del romanzo, «ha un carattere mite, ingenuo, aperto all’amicizia e al senso di equità»; tutte caratteristiche comuni alla quasi totalità dei personaggi principali dell’autore.
Tutto questo li fa scontrare col Potere, col Male, con la malvagità, con chi è in malafede e con la società complice o prona. Perciò – o nonostante ciò – si sforzano di esporre le proprie giuste ragioni con elucubrazioni e argomentazioni infinite, che spesso contengono la risposta alle possibili controargomentazioni e confutazioni avverse. Essi sono davvero loquaci, anzi logorroici. Ovviamente, i loro sforzi sono tanto coraggiosi e onesti, quanto patetici e inutili. Il che è emozionante e commovente. D’altra parte, anche gli “antagonisti” dei personaggi di Kafka sproloquiano e producono argomentazioni su argomentazioni.
Un fiume di parole
Una nota concione è quella pronunciata da Josef K. davanti al giudice istruttore, quasi all’inizio de Il processo: «Quello che è successo a me non è che un caso singolo, e neppure tanto importante, dal momento che io non me ne preoccupo molto, ma è indicativo del modo di procedere che viene adottato ai danni di molti altri. Io qui difendo loro, non me stesso. […] E qual è il senso di questa organizzazione, signori miei? Il senso è questo, di arrestare persone innocenti, e di istruire a loro carico un procedimento assurdo». Lo strano uditorio che ascolta le parole dell’imputato reagisce talvolta con grida, altre volte con applausi, talora con risate, altre volte col silenzio.
Anche nel primo capitolo di America, Il fochista, nato come racconto autonomo e poi divenuto incipit del romanzo, il già citato Karl Rossmann non è ancora neppure sbarcato negli Stati uniti, che assume le difese del lavoratore, venuto in contrasto coi superiori: «Secondo la mia opinione al signor fochista è stato fatto un torto. Qui c’è un certo signor Schubal che non lo lascia tranquillo. Egli ha già fatto ottimamente servizio su molte navi […], è diligente, gli piace il suo lavoro e davvero non si può comprendere perché, proprio su questa nave, dove il servizio non è così eccezionalmente difficile […], egli dovrebbe aver fatto cattiva prova. Si può trattare perciò solo di una calunnia che gli impedisce di fare la sua carriera e lo priva di quei buoni certificati che altrimenti non gli sarebbero di certo mancati».
Da notare che il titolo America è stato attribuito al romanzo da Max Brod, l’amico che ne curò la pubblicazione: Kafka lo aveva invece intitolato con il ben più pregnante Il disperso.
Lo scontro con la società circostante
Ne Il Castello l’agrimensore K. deve continuamente scontrarsi con la gente, per lo più popolana, che abita il villaggio ai piedi del misterioso edificio, al quale cerca di essere ammesso: «Signor sovrintendente, lei insiste nel definire minimo il mio caso, eppure molti funzionari se ne sono a lungo occupati e quindi, anche se all’inizio era forse molto piccolo, ormai è diventato un caso grande […], la mia ambizione non è che sorgano e crollino grandi pile d’incartamenti che mi riguardino, bensì di lavorare tranquillamente e da modesto agrimensore a un modesto tavolo da disegno».
Ne La talpa gigante la voce narrante intende affermare la veridicità della scoperta dello strano animale compiuta dal povero maestro del villaggio in cui vive, ma non creduta dalle autorità scientifiche. Egli non solo argomenta a voce, ma invia una relazione, che si conclude così: «Scopo di questo scritto […] è di procurare alla relazione del maestro la diffusione che si merita. Se otterrò questo, il mio nome, soltanto transitoriamente e superficialmente intrecciato alla questione, dovrà immediatamente scomparire». Tale modestia, però, non solo non serve a nulla per l’intento dell’autore della relazione, ma risulta sgradita pure al maestro stesso che intendeva tutelare.
Arrovellarsi su una moltitudine di ipotesi
Un esempio dei contorcimenti mentali e della successione di ipotesi per cercare di comprendere la realtà è tutto il racconto La costruzione della muraglia cinese. Per di più, al suo interno è posto il brano noto come Il messaggio dell’imperatore, un esempio iconico dell’accumularsi di proposizioni condizionali che conducono al nulla. In Kafka la realtà non può essere osservata e descritta, ma solo immaginata con una congerie di ragionamenti ipotetici, dei quali, però, non vi è uno che prevalga sugli altri.
Peraltro, i «se» posti all’inizio del brevissimo quanto originalissimo, anzi incomparabile, racconto In galleria pongono orribili dubbi sulla reale condizione della «cavallerizza» circense della quale si narra: la crudele verità viene svelata come ipotesi prima della descrizione rassicurante che occupa invece la seconda parte del testo, e non viceversa.
C’è da aggiungere che anche altri racconti, come Un digiunatore o Primo dolore, (protagonista un trapezista), sono ambientati in un circo, visto come un sorta di “istituzione totale”.
Essere scaraventati dal proprio letto al mondo
Lo stato esistenziale di angoscia narrato nella propria opera da Kafka appare spesso onirico: un brutto sogno dal quale non ci si sveglia. Esemplare, in tal senso, è La metamorfosi. In questo celebre racconto lungo il protagonista, Gregor Samsa, tarda inizialmente a capire se la propria trasformazione in scarafaggio sia un incubo o la realtà; e per tutto il resto della vicenda è costretto a letto.
In effetti, pare che il letto sia un topos della narrativa kafkiana. Ad esempio, Il processo inizia con Josef K. che viene bruscamente risvegliato nel proprio letto dalle due «guardie». E, ne Il Castello, K. e Frieda sono quasi sempre alla ricerca di un tranquillo giaciglio, sia pure di fortuna.
Sembra quasi che il letto rappresenti la sicurezza, la protezione, una sorta di «nido» pascoliano, del quale si viene privarti per essere “gettati nel mondo”, una realtà caratterizzata da arbitrio, violenza, ingiustizie.
Un’infinità di interpretazioni
L’intera opera di Kafka può essere interpretata come un’allegoria di varie condizioni umane: il rapporto con la malattia e con la tirannide patriarcale, con la soffocante burocrazia, con l’alienante e reificante società di massa, con il Potere. E una spiegazione non esclude le altre.
E, ancora, il capitalismo, la società industriale, la condizione ebraica, l’assurdità incomprensibile dell’esistenza, il silenzio, la lontananza o, proprio, l’assenza di Dio. Assenza? Günther Anders, nel suo Kafka. Pro e contro, collega addirittura la concezione kafkiana del divino, con quella, “eretica”, di Marcione, «secondo la quale il Dio creatore è “demiurgico”, quindi “malvagio” […], è il Dio della “legge”, dell’Antico Testamento: anche nello scrittore praghese l’istanza divina, la legge e “la malvagità” coincidono». E a questo punto risulta obbligato un collegamento con Il funesto demiurgo di Emil M. Cioran.
Resta il fatto che gli scritti di Kafka continuano ad affascinarci, oltre che per le loro stranianti trame e i singolari, allucinati, personaggi, nonché per la loro intrinseca bellezza, anche stilistica (sempre Anders definisce il suo lessico una lingua tedesca «burocratica» quanto «graziosa»), e per il mistero polisemico che promana da ciascuno di loro…
I brani citati sono, nell’ordine, traduzioni di Primo Levi (Il processo, Einaudi, Torino 1983), di Alberto Spaini (America, Arnoldo Mondadori, Milano 1976), di Umberto Gandini (Il Castello, Feltrinelli, Milano 2023), di Anita Rho (La talpa gigante in Il messaggio dell’imperatore. Racconti, Adelphi, Milano 2023). Inoltre, abbiamo fatto riferimento al saggio di Günther Anders (Kafka. Pro e contro, Gabriele Corbo, Ferrara 1989).
Le immagini: alcune copertine di edizioni italiane delle opere di Kafka.
Rino Tripodi
(Pensieri divergenti. Libero blog indipendente e non allineato)