Realismo e spirito poetico raramente si accoppiano. Anche in arte e letteratura: l’aspetto “realistico”, cioè legato al sociale, alla concretezza dei problemi economici e umani, in genere esclude l'”aura” estetica, sentimentale, musicale. Lo scrittore-scultore Francesco Cento, d’adozione genovese – così come Fabrizio De André, “poeta” che spesso seppe davvero coniugare realismo e lirica -, è stato spesso ospitato sulla nostra rivista.
Cento – autore de Litàlia. Racconto popolare postrisorgimentale in due tempi e un post scriptum e di Né sole, né luna. Quadri (narrati) del Settecento calabrese – è appassionato anche di melodramma italiano (ricordiamo “Chi per la Patria muor / Alma sì rea non ha”. Il patriottismo in musica da Rossini a Verdi). Nel racconto che segue, La Decimarosa, che riportiamo per intero di seguito, riesce nell’impresa di congiungere delicatezza e amore per la bellezza e per l’incanto della musica lirica al realismo sociale di fondo.
Al corso regionale per saldatori arrivavano ogni anno giovani tra i diciotto e i venti anni, reduci da brevi corsi serali o pomeridiani: scorie di formazione scolastica con vitalizio coatto all’ignoranza. Non riuscendo mai a capire per quale motivo, per loro, non erano mai esistiti corsi di recupero tenuti da educatori disposti ad ascoltarli o, quantomeno, a guardarli negli occhi per poterne valutare la disperazione. Mai una parola d’incoraggiamento, per quei loro esercizi squinternati, bisognevoli di una maggiore attenzione da parte dell’insegnante. Ma l’educatore doveva badare almeno a ventotto/trenta studenti, di cui solo cinque erano veri geni, che valeva la pena seguire e coccolare, con le loro espressioni algebriche tutte ben ridotte ai minimi termini e tutte con i risultati esatti. Per contro, le parentesi dei neosaldatori rimanevano costantemente aperte e qualche denominatore si perdeva, inevitabilmente, per strada, la stessa strada che li aveva condotti in officina.
Quell’anno, tra il folto gruppo di rimandati e respinti dalle scuole della provincia, arrivò uno studente anziano, che aveva perso il lavoro e che attendeva, tra gli schiamazzi, di poter consegnare la propria iscrizione in segreteria.
Federico – questo il suo nome – ricordo aveva l’aspetto dimesso d’una grande intelligenza raffrenata, sommersa, segnata da una dolorosa sensibilità continuamente portata allo spasimo della nevrosi. Teneva i documenti dell’iscrizione come le ricette di certi farmaci di cui si ha vergogna, e non si sa come parlarne al farmacista.
Proveniente da una famiglia benestante, Federico aveva passato tutta la sua fanciullezza presso un collegio salesiano, disconoscendo cosa significasse avere l’affetto della famiglia, così come quei giovani schiamazzanti, dalle famiglie distratte o inconsistenti. Negli studi era un disastro in ogni disciplina. Tutti i suoi insegnanti scuotevano le spalle e si lamentavano dell’inettitudine. Stentava a scrivere e a leggere, nonostante fosse un indefesso lettore. Di scienze non capiva nulla e di matematica men che meno. I suoi insegnanti non seppero mai, però, che egli, per studiare meglio le piante, avesse coltivato alcuni fagioli in un bicchiere con dentro cotone e un po’ d’acqua e, man mano che la professoressa spiegava alla lavagna, avesse seguito la crescita e la trasformazione delle piantine. Non ebbe mai la forza di parlarne all’insegnante, né di scriverne sul compito. Gli si richiedeva di segnare, con una crocetta, la risposta giusta: lui riempiva a caso i quadratini, non potendo esporre. Gravemente insufficiente.
I suoi genitori lo sognavano avvocato o medico; lui si vedeva pittore o cantante, Né l’uno, né l’altro: trovò lavoro come tipografo e vi restò per vent’anni. Federico, in quel tempo, di anni ne aveva già quarantacinque, capelli grigi e occhiali da presbite e in mezzo a quel marasma di gioventù, più incosciente che spensierata, stava in silenzio, seguendo l’onda della fila. Aveva perso il lavoro ormai da un anno e, visto che la cassa integrazione era finita, disperato, aveva deciso di tentare il corso per saldatori. Un lavoro come un altro, che gli serviva non solo per la propria sussistenza, ma, soprattutto, per potersi pagare le lezioni di canto a cui teneva più di ogni altra cosa. I suoi genitori non avevano mai accettato né condiviso il suo amore verso l’arte e la musica. Tutte cose con le quali mai avrebbe messo insieme il pranzo con la cena, dicevano. Ma, alla loro morte, Federico, appena uscito di collegio, in quella grande casa avita, a lui completamente estranea, iniziò una vita rivolta all’arte e, principalmente, alla musica.
Il gruppo di lavoro in cui entrò era formato da una quindicina di ragazzi giovanissimi, completamente sprovvisti di qualsiasi tipo di conoscenza: dal riempire un bollettino postale, al leggere le istruzioni della macchinetta del caffè, alla consultazione dell’orario ferroviario. Erano animali di città. Conducevano una vita allo stato brado, sotto i portici dei parcheggi del loro quartiere o al capolinea dell’autobus che li conduceva in centro, verso lo stadio, le sale da gioco, il centro commerciale. Fu durante una pausa pranzo che Federico si mise a cantare, per ripassare, a cappella, una parte ostica d’un brano di Cimarosa che stava studiando in quei giorni. Nonostante si fosse messo in disparte, l’eco dell’officina, zittita per il pranzo, diffuse in ogni dove quel motivo: “Pria che spunti in ciel l’aurora”.
Il gruppo rimase inebetito. Nessuno aveva mai ascoltato alcunché del genere, né aveva mai neanche immaginato potesse esistere qualcosa di così delicato. Una musica inaudita, una sensazione inebriante, da accapponare la pelle. Smisero perfino di masticare, per non fare rumore. Quando Federico finì, un urlo da stadio lo fece trasalire, con tutti i suoi compagni che lo attorniavano chiedendogli: «Ma cos’è che hai cantato?».
«Cimarosa, naturalmente!», rispose.
Come se per loro fosse pane quotidiano, conoscerlo.
“Ah! Cimarosa”, ripresero tutti, non capendo e sgranando tanto d’occhi. Quegli occhi nei quali era impressa la loro vita brada, di periferia, che non contemplava quella delicatezza estrema, malinconica, struggente. Loro, vitelli da latte che tentavano di sopravvivere in mezzo ai macellai. Piacque immensamente quel canto, tal che se lo portarono a casa, nelle tasche dei loro giubbotti, tra le pieghe della loro memoria. Qualcuno, addirittura, spense l’mp3 per far spazio, nella testa, a quella musica. Furono tutti assunti, alla fine del corso, con un contratto a tre mesi, rinnovabile. Felici di ritornare a casa e comunicare: «Ho un lavoro!», nella quasi indifferenza generale.
Tra bombole di ossigeno e di acetilene, cannelli e fiamme, acciai e metalli d’ogni sorta, passavano la loro giornata disfacendosi tra scintille tossiche ma, per la pausa mensa, qualcuno portava sempre uno sgabello fin lì, sul quale facevano salire Federico.
«Canta!,», gli dicevano attorniandolo «la Decimarosa, naturalmente».
(Francesco Cento, La Decimarosa)
L’immagine: il musicista Domenico Cimarosa (1741-1803) in un ritratto eseguito dal pittore Alessandro Longhi (1733-1813).
Viviana Viviani
(LucidaMente, anno VI, n. 64, aprile 2011)