Il nuovo film di Thomas Vinterberg, allievo del maestro del cinema Lars von Trier, pesca nel passato per mettere a nudo i drammi personali e familiari di chi tenta inutilmente di nasconderli
La comune. Kollektivet (2016) è un film del regista danese Thomas Vinterberg, che già dal titolo potrebbe creare l’aspettativa di una storia attuale di vita in collettività, magari come cohousing, una forma di coabitazione che impone il contenimento delle spese in risposta alla crisi economica. Un’esigenza, questa, che inevitabilmente si scontra con i miti dell’autonomia e della privacy dell’individuo, le nuove ideologie che hanno preso il posto di rimpiante utopie di tipo filosofico.
In un’intervista Vinterberg, allievo di Lars von Trier, ha confidato che proprio la nostalgia è stata la principale spinta a indirizzare i suoi ricordi in una pièce teatrale, poi seguita dal film, ambientato negli anni Settanta del secolo scorso, nel quale si rievocano esperienze di comunità che egli stesso ha vissuto, dai 7 ai 19 anni, insieme alla famiglia. Nelle sue precedenti opere, Festen. Festa in famiglia (1998) e Il sospetto (Jagten, “La caccia”, 2012), il regista ha dimostrato di avere una particolare predisposizione a scavare nei rapporti umani, predisponendoci a una raffinata e acuta analisi delle relazioni tra le persone, come s’immaginano in un contesto del genere. Con Festen Vinterberg stupì il Festival di Cannes, inscenando un processo familiare, nient’affatto festoso, al patriarca di una ricca famiglia danese nel giorno del suo sessantesimo compleanno. In Jagten, uscito in Italia con il titolo Il sospetto, egli invece analizzò metodicamente l’emarginazione progressiva di un insegnante in seguito a una frase innocente detta da una bambina. Un processo, in questo caso, ad opera della piccola comunità nella quale il maestro era ben inserito e stimato fino a quel pettegolezzo.
Ma con Kollektivet il regista sembra cambiare direzione, intendendo raccontare «non l’ennesima famiglia disfunzionale, ma un’epoca di condivisione e utopie di cui sento una profonda nostalgia», riferendosi, ovviamente, all’esperienza fatta in giovinezza. In quegli anni era frequente che borghesi e intellettuali, di ceto sociale elevato, volessero sperimentare una forma di famiglia diversa da quella patriarcale. Nella prima parte del film, infatti, si assiste al costituirsi del gruppo in una grande casa ereditata dal capofamiglia Erik, docente di architettura, sposato con Anna, anchorwoman televisiva. Sono soprattutto la moglie e la figlia adolescente Freja a essere elettrizzate dalle novità che un tale cambiamento produrrà nella routine quotidiana. Il piccolo nucleo domestico si apre quindi ad accogliere altre persone, soprattutto amici, fino ad allargarsi agli estranei, fatto che provoca qualche attrito, subito minimizzato dalla maggioranza con democratico civismo e spirito di tolleranza.
Il regista non approfondisce, dal punto di vista psico-sociologico, i caratteri dei singoli componenti e i loro rapporti, ma fornisce con leggerezza un quadro d’insieme, sottolineando l’euforia che in genere accompagna i nuovi inizi. L’organizzazione della convivenza, la creazione di regole condivise, la celebrazione di riti comuni gratificano i protagonisti allo stesso modo delle serate conviviali, dalle quali tutti sembrano trarre nuove energie e piacere. Il clima giocoso subisce però una svolta nella seconda parte del film, quando una giovane donna incrina l’equilibrio raggiunto dal gruppo. L’attenzione del regista si concentra prevalentemente sulla famiglia che determina, con la sua vulnerabilità, l’instaurarsi di un’atmosfera simile a quella vista in Festen, dove prima la disarmonia e poi la definitiva lacerazione si concentravano nel momento del pranzo, in un’escalation volta alla inevitabile tragedia.
Diventa chiaro, a questo punto, che Vinterberg vuole ancora indagare l’impossibile stabilità della famiglia nucleare e, con essa, il dramma di un singolo che non può essere elaborato se non in solitudine. Qui, come negli altri due film citati, c’è un individuo che non è più integrato nel gruppo. Tale elemento attrae il regista come “oggetto” da analizzare perché, lui dice, «una ragione c’è sempre». Abile nel mettere a nudo le verità nascoste da cui hanno origine i contrasti e i segreti che pare conveniente non svelare per il quieto vivere – l’espressione inglese che egli usa per simbolizzare una verità ovvia, benché ignorata, è «the elephant in the room» –, Vinterberg aveva lasciato intendere di voler rielaborare «esperienze dell’infanzia, del tempo che passa, dell’amore che finisce, delle persone che non ci sono più e del perché debba sempre andare a finire così».
Ma è una nostalgia che lui tiene a bada, in fondo, perché il risultato è solo in parte autobiografico. Infatti i vecchi amici della comune hanno convenuto con il regista che il film non rispecchia la loro esperienza e lui stesso ha affermato che non contiene fatti reali, bensì sentimenti reali. Nella seconda parte della pellicola l’interesse si focalizza sul nucleo originario, mentre il gruppo dei coinquilini diventa sfocato; come il coro di una tragedia greca, esso assiste al precipitare degli eventi, nonostante l’illusoria convinzione che basti un voto per decidere “democraticamente” se debba uscire dalla comune la persona che ne turba l’armonia. La comune è, in fondo, la cornice per un dramma familiare e i suoi abitanti hanno la stessa funzione dei parenti in Festen: assistere alla verità nel momento in cui si manifesta in tutta la sua umiliante crudeltà. Il dolore, a quel punto, non può essere collettivo e la sua relativa elaborazione è interamente a carico del singolo.
Silvana Tabarroni
(LucidaMente, anno XI, n. 127, luglio 2016)