Un personaggio, un simbolo, un folle… Chi è davvero questo famoso “cattivo”?
Nuovo mese, nuova recensione! Come si sarà notato, di recente ci siamo appassionati a pellicole come Storia di un matrimonio, C’era una volta a Hollywood, Martin Eden; due su tre approdate alla 76a Mostra d’arte cinematografica di Venezia.
Quindi, non potevamo tacere sul vincitore del Leone d’oro: Joker, nelle sale italiane dal 3 ottobre scorso. Il film di Todd Phillips (regista finora conosciuto per Una notte da leoni) è l’ultimo di una discreta serie sulla figura del famoso arcinemico di Batman. Prima del 2019, i suoi più celebri interpreti sono stati Cesar Romero (1966), Jack Nicholson (1989), Heath Ledger (2008) e Jared Leto (2016). Oggi, a vestirne i panni è Joaquin Phoenix (Il gladiatore, Lei); nella mente sia del regista sia del cosceneggiatore, Scott Silver (8 Mile, The fighter), non poteva essere altro che lui a incarnare Arthur Fleck. Così hanno chiamato il personaggio che vive a Gotham negli anni Ottanta, immerso in un’atmosfera che «vira verso il noir metropolitano» (Storie, settembre 2019). L’ispirazione per questo tipo di ambientazione arriva esplicitamente da Taxi Driver e Re per una notte di Martin Scorsese. In ogni caso, oltre a essere il primo film interamente incentrato sul personaggio più folle nel mondo dei comics, l’obiettivo non è raccontarne la storia, ma illustrare il processo che porta Arthur a divenire Joker.
Per capirlo è necessario sapere che di giorno Fleck fa il pagliaccio, mentre di sera tenta l’ascesa come cabarettista. Purtroppo, i suoi disturbi neurologici contribuiscono all’insuccesso, tanto da diventare vittima di bullismo ed essere considerato un reietto. Di conseguenza, frustrazione e amarezza si accumulano sino ad acuire la distruttiva pazzia. «Ho sempre pensato alla mia vita come una tragedia, adesso vedo che è una commedia», ecco la frase emblema della trasformazione. Va, inoltre, precisato che qui Joker non è il classico agente del caos associato alla figura folklorica del trickster e la follia non viene analizzata nella consueta ottica di affascinante genialità. La pellicola ne mostra l’aspetto patologico e l’elemento principale per questa chiave di lettura è la risata dissociativa.
Su di essa l’attore ha lavorato duramente e su Il Venerdì di Repubblica del 15 agosto 2019 ha dichiarato: «La prima volta che ho incontrato […] Todd Phillips me l’aveva descritta come qualcosa di doloroso. Mi ha mostrato dei video di persone affette da risata patologica, una disfunzione psichica che si esprime sotto forma di risata incontrollabile […] fino a quel momento per me la risata di Joker era stata una risata isterica, meccanica. Non il portato di una malattia mentale, che è qualcosa di emotivamente più profondo: è un sentimento represso che cerca di emergere». Sullo stesso numero del settimanale, il giornalista Vittorio Lingiardi aggiunge e sottolinea come Joker sia la risposta ai traumi insuperabili della vita.
Quando ricordare è troppo doloroso e l’individuo non è in grado di sostenere un fardello simile, ecco la via di fuga: la follia. Come se così facendo si impedisse all’emotività di manifestarsi. Infatti, secondo quanto studiato e scritto da Heidi Maibom, gli psicopatici sarebbero appunto semplicemente più bravi ad accendere e spegnere l’“interruttore” dell’empatia. Non è forse ciò che chiunque fa quando cambia canale alla televisione per non vedere immagini crude o quando distoglie lo sguardo da un mendicante per strada? Stesso principio: accensione-spegnimento. Effettivamente potremmo essere tutti dei potenziali portatori di un germe psicopatologico. Dunque, la grande forza del portentoso lavoro di Phillips è mostrare come Arthur Fleck sia un comune cittadino. Se la società continua a perseguire uno stile individualista e persiste a trattare problemi di natura psichica non come tali, questa catena di sofferenza non s’interromperà e probabilmente si avrà un numero crescente di “Joker”.
Le immagini: la locandina del film Joker; una foto dell’attore Joaquin Phoenix, che ne interpreta il personaggio; il regista Todd Phillips, con la statuetta del Leone d’oro 2019.
Arianna Mazzanti
(LucidaMente, anno XIV, n. 167, novembre 2019)