“Un delirio tropicale” del narratore torinese, tra miti ancestrali e mistero del Male
Cuore di tenebra cent’anni dopo. È il titolo della Prefazione del nostro direttore Rino Tripodi – che riportiamo di seguito per intero – a Jiwe pietra d’Africa. Un delirio tropicale di Paolo Bonesso (Iride-Rubbettino, pp. 192, € 12,00), splendido, visionario, conradiano romanzo che si è distinto grazie allo stile originalissimo e alla presenza di un’irrefrenabile immaginazione. Questa straordinaria “opera prima” dello scrittore torinese risale al 2003. Le Edizioni di LucidaMente si sono accaparrate di corsa i diritti sul suo secondo romanzo, Le felicità nascoste. Memorie involontarie di un bevitore di vino, che uscirà tra breve nella collana La scacchiera di Babele.
«C’immergevamo
sempre più a fondo
nel cuore delle tenebre»
«Risalire quel fiume era come viaggiare all’indietro nel corso del tempo, ritornare ai primordi, quando la vegetazione cresceva sfrenata sulla terra e i grandi alberi ne erano i sovrani. Un fiume deserto, un silenzio solenne, una foresta impenetrabile. L’aria era calda, spessa, greve, immota. E non v’era alcuna gioia nello splendere del sole. […] Ma questa immobilità immensa, questa quiete sovrumana non somigliava per nulla alla pace. Era la quiete di una forza implacabile che covava una intenzione inscrutabile».
Tutti conserviamo ancora nel cuore, nella mente, nell’animo, nello spirito, questo brano di Cuore di tenebra (1903) di Joseph Conrad.
Leggendo Jiwe pietra d’Africa di Paolo Bonesso – scritto, guarda caso, esattamente cento anni dopo –, ci è sembrato di tornare ad immergerci in quell’Africa straziante e maledetta. Con una prima differenza: Marlow, protagonista del romanzo di Conrad, viaggiava lungo un fiume (il Congo), l’io narrante di Bonesso si muove via terra, apparentemente in maniera disordinata, senza riferimenti o appigli, e giunge solo alla fine a un corso d’acqua (il Limpopo). Non si tratta soltanto di una diversità di annotazioni geografiche.
Mentre il delirio africano dello scrittore anglo-polacco, infatti, si materializzava nel fiume-serpente, le allucinazioni del torinese Bonesso risultano ancora più angoscianti perché non sembrano avere un legame, benché inquietante, con l’esterno, ma si concentrano all’interno del protagonista, per disperdersi in infiniti rivoli, in uno spiraliforme ritorno di incubi rivelatori.
Il padre-madre: l’invidia uteri
Se Kurtz era l’oggetto della ricerca di Marlow, quello della voce narrante dell’opera che stiamo presentando è Jiwe. Kurtz e Jiwe: due personaggi che nascondono non un segreto, ma il segreto, la rivelazione che cambierà definitivamente la vita di chi li ha persi, inseguiti, ritrovati… Beninteso, il mistero era celato nell’inconscio dei due “cercatori”: uovo alchemico, nebuloso e diafano, perché occultato, ma anche abbagliante e lacerante, una volta che, dopo lunga attesa, può finalmente schiudersi. E qui riscontriamo una seconda differenza: il protagonista di Conrad finiva i propri giorni nell’abulia, a seguito dello sconvolgimento interiore per aver scoperto «L’orrore! L’orrore!» di Kurtz; quello di Bonesso, divenuto insieme padre e madre, genera una creatura, non sappiamo quanto umana.
Ci troviamo così di fronte a una tematica psicanalitica affascinante: il padre che partorisce, facendosi madre, con una sorta di invidia uteriche subentra alla più tradizionale invidia penis. Un motivo, dunque, interessantissimo e originale in modo quasi assoluto, clamoroso, su cui la psicologia analitica e la critica letteraria correlata avrebbero molto da riferire.
Un andamento narrativo ciclico
Il linguaggio di Bonesso è costituito da una “prosa lirica” ricchissima, fondata su un susseguirsi, talvolta frastornante, di similitudini e di analogie spesso arditissime e “senza fili”: schegge taglienti in grado di dilatare all’estremo le cose, le piante, gli animali, i suoni, i colori. La narrazione, quindi, viene in secondo piano: Jiwe non può essere letto come un normale romanzo del quale seguire l’intreccio, che, effettivamente, manca quasi del tutto.
Se è pur vero che è presente un lento movimento e svolgimento narrativo, il modo di procedere predominante del racconto è ciclico. Certi spunti ritornano costanti: ad esempio Vita/Caccia/Preda-Predatore/Vittima-Carnefice/Morte; Jiwe e le altre donne; il viaggio e i compagni di viaggio. Tali macrosequenze non hanno sviluppo: si ripetono, sovrastando e sovrapponendosi all’andamento della “storia”. Segmenti ricorrenti che costituiscono una sorta di refrain, peraltro mai tranquillizzante.
I piani temporali lungo i quali si dipana il racconto sono molteplici e ad ognuno di essi corrisponde un tempo verbale: il tempo “corrente” del protagonista, teso drammaticamente, enfatizzato dall’insolito uso – almeno per un testo così lungo – dell’indicativo presente quale tempo principale; il passato prossimo dell’io narrante, dominato dalla figura di Jiwe dopo la sua fuga; il lontano passato del ricordo dell’infanzia “montanara”, dell’esperienza scolastica, dell’universo fanciullesco (la morte di Walt Disney), nel cui ambito vengono usati i tempi tradizionali del passato remoto e dell’imperfetto indicativo; un futuro immediato, fatto di improvvisi propositi, aspettative, decisioni.
Ancora prima del mito
Ma la narrazione è perlopiù un esile filo che si ritira davanti all’immersione nelle profondità dell’inconscio, non solo individuale, ma altresì collettivo, ancestrale, a tal punto che, come Marlow, risalendo il fiume, sentiva di andare a ritroso nello spazio-tempo, anche noi, leggendo Jiwe, proviamo la stessa, qualche volta angosciosa sensazione di immergerci in un mondo alieno, ancora più distante di quello di Cuore di tenebra. Eppure, “lì” noi siamo già stati, in un tempo abissalmente remoto, quando forse eravamo pesci, o amebe, o fango primigenio.
È il ritorno al primordiale, all’indifferenziato, una condizione nella quale tutto era possibile, persino che un maschio o il mitico androgine potessero partorire. E su tutto un sole allo stesso tempo possente, ma eccessivo, che dà più vita di quanto le nostre illusioni razionali pretenderebbero – troppa vita –, e spietato, che schiaccia in terra più di quello che solleva o vivifica. La putrefazione, eterna forma di trasformazione, travaglio funzionale ai meccanismi della natura, ma orrenda conclusione per l’individuo, finisce per essere la nota dominante di alcune pagine del romanzo.
Sarebbe perciò sbagliato affermare che il lavoro che stiamo analizzando faccia rivivere antichi miti: in verità esso si situa in una dimensione premitologica. Il mito, sebbene sia un elemento immaginativo potente e radicato nel nostro inconscio, sua rappresentazione dinamica, pur si pone in ambito umano; Jiwe va ancora più indietro, più dentro, più sotto, comunque fuori dall’uomo, che, nell’invenzione di Bonesso, è parte della scena al pari di una zebra, di una pianta o di una pietra. Da questa realtà alogica, in cui il linguaggio inteso come logos/ragione ancora non esisteva, scaturisce la necessità della decisione – e la bravura – del nostro scrittore nell’inventarsene uno tutto suo, nel quale sono scardinate le regole logiche e tutto procede tumultuosamente.
Risulta quasi naturale, pertanto, che le sequenze narrative escano dai normali assi temporali.
Una scrittura pulsante e incandescente
Tutto procede tumultuosamente, dicevamo.
La scrittura di Bonesso aderisce a un ritmo sconosciuto e a un misterioso pulsare interni ad essa, una sorta di universo autonomo: è vita biologica, è magma pulsante e incandescente, è l’attimo prima dell’orgasmo. Si spiegano in tal modo le accumulazioni di analogie, immagini, similitudini: dinamismo linguistico, brulichio di gemmazioni senza fine. Non è che l’autore perda il controllo della sua materia o esageri, semplicemente è medium di energie e proiezioni primordiali, di concetti inesprimibili in altra forma, se non come miraggi ripetuti ed ossessivi, vorticose vertigini prillanti al di là di ogni dimensione nota.
Ecco pure l’onirismo, il ricorso al sogno, unico contesto concepibile per riprodurre l’ineffabile. O, piuttosto, una forza che ci parla o comunica attraverso i sogni, dunque, al contrario, il sogno che si serve di noi.
L’immaginazione, il visionario, l’esotismo, non sono, quindi, opzioni stilistiche, ma esigenze espressive.
L’enigma del Male: una concezione gnostica della creazione
Così anche il tono apocalittico, che può far pensare al testo sacro di un’arcana, disumana, perduta religione, l’atmosfera cupa, plumbea, “maledetta”, non è una posa dell’artista, ma una scelta inevitabile per rappresentare l’orgia di vitalità e crudeltà della natura del mondo, ancora più evidente nello scenario africano, ove di frequente essa perviene a una fissità metafisica, e ancor più spesso è realtà trafitta da abbacinanti visioni e disvelamenti, balenii troppo luminosi per essere osservati ad occhio nudo, avvisi di orrori cosmici.
Secondo una certa teologia e cosmologia gnostica, ripresa da Emil Cioran, nell’opera di Dio, all’atto della genesi, si è infiltrato un Demiurgo, che ha “sporcato” l’universo con una nefasta impurità: di conseguenza, colpevole dell’imperfezione della creazione, vale a dire del pianeta in cui viviamo, non è Dio, ma un “errore”, o un essere che vi si è insinuato. Da questa tragica fatalità si origina il Male, col suo corollario di violenza e dolore.
Anche nella narrazione di Bonesso della nascita del mondo compiuta da Mwari, sembrerebbe che il Male vi si sia inserito all’insaputa del creatore. Tuttavia, nel corso del romanzo, egli assume sovente le sembianze di un dio funesto e malvagio. Forse possiamo sciogliere la contraddizione ipotizzando che Mwari divenga cattivo per la vergogna di aver consentito alla sofferenza, a causa di una sua distrazione, di permeare la propria impresa.
Il tema centrale del libro, infatti, è il mistero del dolore nel mondo, nonostante ad esso si unisca al contempo la speranza di sottrarvisi. La morte e il patimento che accomunano tutte le creature, lo spietato e cieco funzionamento della natura che esercita la sua furia devastante sono motivi che ritornano costantemente nel testo. O, più sottilmente, empie vibrazioni del reale che fanno intuire il perpetuo, maligno raggiro.
Compaiono, d’altra parte, altre tematiche, meno dolorose: ad esempio, la memoria dell’infanzia, con la sua dolcezza, che costituisce uno dei pochi motivi sereni che incontriamo nella narrazione, incastonature in una struttura frantumata e rovente.
La sensualità, il desiderio, la carnalità impregnano molte pagine del romanzo; eppure ad essi s’accompagna un singolare pudore che impedisce spunti di erotismo esplicito.
Un’originale ricerca artistica ed espressiva
Nell’autore di Jiwe si riconosce chiaramente l’esperienza diretta di viaggi inconsueti e la conoscenza dell’Africa, unite però a un sincero e intenso vissuto: un “mal d’Africa” tutt’altro che banalità da turista last minute. Ma, quel che è più importante, vi è la presenza di tematiche affascinanti e profondissime, e amore del bello: arte e ricerca espressiva, i cui esiti sono esercizi di stile febbrili e acuminati.
Un’opera letteraria non convenzionale, di gran lunga superiore a ciò che vediamo pubblicato mediamente, una scrittura fantasmagorica e rutilante, un viaggio nel “cuore di tenebra” che batte nel petto di ciascuno di noi.
E, riprendendo Conrad, «la verità interna è nascosta, fortunatamente, fortunatamente».
(Rino Tripodi, Cuore di tenebra cent’anni dopo, Prefazione a Paolo Bonesso, Jiwe pietra d’Africa. Un delirio tropicale, Iride-Rubbettino)
L’immagine: la copertina del romanzo di Paolo Bonesso.
Loretta Scipioni
(LucidaMente, anno II, n. 17, maggio 2007)