La nuova creatura di Renzi è pronta a prendere voti sia a sinistra sia a destra, ma riuscirà a sopravvivere al protagonismo del proprio leader? Breve storia del fallimento dei partiti personalistici
Lo scorso 17 settembre è stata ufficializzata la più volte annunciata e poi rimandata scissione del Partito democratico per mano del suo ex segretario, Matteo Renzi, che, con il proprio nuovo partito – Italia viva – punta all’area moderata di centro, vicina anche a Forza Italia. Solo il tempo potrà dire se tale mossa risulterà vincente; di sicuro i precedenti, soprattutto nell’area della sinistra, non sorridono a questo nuovo partito personale.
In Italia sono numerosi gli esempi, infatti, di partiti nati, costruiti – e spesso morti – intorno a una singola personalità forte. Fra le diverse realtà di cui il nostro paese è stato testimone la costante è sempre stata un ridotto consenso elettorale e brevi periodi di rilevanza politica. La rilevanza politica si misura – secondo lo studio svolto dal politologo Giovanni Sartori – attraverso la capacità da parte di un partito politico di avere un potenziale di coalizione (la facoltà di poter entrare a far parte di un’alleanza) o un potenziale di ricatto (il potere di un partito di condizionare gli altri attori). Giusto per citare un esempio, il Partito comunista italiano ha sempre avuto un fortissimo potenziale di ricatto e, infatti, tramite il suo grande consenso e i suoi legami preferenziali con alcuni settori della società, è riuscito a influenzare le azioni dei diversi partiti governativi, pur non avendo alcun potenziale di coalizione, visto la conventio ad excludendum che – nei suoi confronti – è stata portata avanti per tutta la seconda metà del XX secolo. Se si considera, invece, qualche recente caso italiano, la tesi portata avanti in queste righe viene dimostrata dalla storia politica di tre partiti personali: Italia dei valori, Scelta civica e Rivoluzione civile.
Il primo, fondato nel 1998 dall’ex magistrato Antonio Di Pietro – protagonista dell’inchiesta Mani pulite – è riuscito a ottenere un iniziale buon 3,9% alle politiche del 2001, ma è nel 2006, grazie alla coalizione con piccole realtà di sinistra, che raggiunge il suo apice politico – non tanto rispetto ai voti, visto che nel 2008 perverrà al 4,3% – alleandosi con l’Unione di Romano Prodi e pertanto entrando nell’area di governo. Il secondo, creato da Mario Monti nel 2013 – all’epoca premier uscente – ottiene un sorprendente 8,3% alla Camera e 9,1% al Senato alle politiche dello stesso anno. Nel corso della legislatura decide di appoggiare, quindi, il governo Letta, ottenendo anche la nomina di due ministri, e il successivo governo Renzi, assicurandosi un ministero.
Il partito si è ufficialmente sciolto nel 2017, anche se, a causa di dissidi interni, il suo fondatore – Monti – ne era già uscito nell’ottobre del 2013. Il terzo, e ultimo, è quello che ha vita più breve. La lista elettorale Rivoluzione civile – all’interno della quale confluisce in questa occasione anche Idv – viene creata appositamente da Antonio Ingroia, anche lui ex magistrato, per le elezioni politiche del 2013. Il risultato elettorale molto deludente – 2,25% alla Camera e l’1,8% al Senato – porta alla dissoluzione del partito dopo nemmeno tre mesi dalle consultazioni. L’unica eccezione al fallimento dei partiti personali italiani è stata, fino ad ora, Forza Italia. La differenza con gli esempi precedenti risiede, senz’altro, nel fatto che l’ascesa politica di Silvio Berlusconi alle legislative del 1994 sia arrivata negli anni del declino della prima repubblica, che aveva visto dalla fine della II guerra mondiale il dominio del ruolo dei partiti sulla scena politica italiana. Berlusconi si è presentato all’elettorato come un innovatore politico, capace di andare oltre la Prima repubblica, grazie al suo partito-azienda, e riuscendo ad attrarre i cittadini stanchi e delusi dagli anni dell’eccessiva «partitocrazia» italiana. Una cosa simile ha provato a replicarla Beppe Grillo, il fondatore e garante del Movimento 5 stelle, anche se questo esempio non rispecchia fino in fondo i precedenti appena citati, in quanto Grillo ha sempre avuto un ruolo politico attivo, ma mai rilevante dal punto di vista elettorale.
Perché, dunque, in Italia questi partiti personali non possono funzionare o, almeno in larga parte, non hanno successo? La risposta si trova all’interno dello stesso schema parlamentare. L’Italia, in quanto democrazia di tipo consensuale, ha bisogno – per tenere insieme una società scomposta, multiforme e differenziata – di un sistema elettorale proporzionale.
I governi, perciò, non sono monopartitici – come in Gran Bretagna – ma di coalizione. Essi sono, quindi, portati alla ricerca di accordi e di ampio consenso. In questo consenso i grandi partiti regnano sovrani anche per il timore di buona parte dell’elettorato di vedere disperso il proprio voto se consegnato a un partito più piccolo. Da questo schema politico si differenzia, per esempio, la repubblica semipresidenziale francese, all’interno della quale il presidente della repubblica viene eletto direttamente dai cittadini. Grazie al relativo sistema maggioritario a doppio turno Emmanuel Macron è riuscito a vincere le elezioni nella primavera del 2017 con il suo partito La République en Marche, nato appena un anno prima. Nel contesto politico italiano, Renzi, tanto giovane quanto ambizioso, dovrà decidere come muoversi. Per il momento, l’idea che sembra trapelare è quella di voler mantenere il sostegno all’attuale governo fino alla fine della legislatura. In qualunque caso, alle prossime elezioni politiche difficilmente Italia viva potrà ambire a grandi risultati correndo da sola e allora si vedrà la vera natura della nuova “creatura” di Renzi: se cercherà un’alleanza con il centrosinistra o con il centrodestra moderato.
Le immagini: Silvio Berlusconi e Giovanni Sartori.
Alessandro Crisci
(LM EXTRA n. 35, 18 ottobre 2019, supplemento a LucidaMente, anno XIV, n. 166, ottobre 2019)
Bellissimo articolo.