Nel libro di Claudia Mazzilli, edito da Nulla Die, la protagonista sorprende e fa riflettere nel suo essere una donna dei nostri tempi, con a cuore i migranti
Oggi l’attualità della figura di Medea è fin troppo evidente: difficile trovare un conflitto altrettanto asimmetrico come quello tra una donna appartenente a una civiltà barbara, legata ai riti della Madre Terra, e l’opulenta e razionalistica società occidentale. Nell’antinomia tra le ragioni di Medea e di Giasone, da Euripide e Seneca fino a Pier Paolo Pasolini e a Christa Wolf, la letteratura di ogni tempo ha svelato l’impostura e la manipolazione intrinseche alla versione della storia dettata dal più forte. Come avviene nel romanzo di Claudia Mazzilli Io sono Medea (Nulla Die edizioni, Piazza Armerina 2021, pp. 152, € 14,00).
In questa riscrittura, Medea non è nemmeno madre, ma pur sempre donna divorziata senza figli e straniera, ormai integrata in una seconda patria da vent’anni e a sua volta dedita al volontariato in un centro di accoglienza per migranti: una nuova Medea, dunque, che continua ad affascinare per la sua tempra orgogliosa e indomita, suscitando meraviglia nel lettore per la forza delle istanze femministe che si nascondono proprio lì dove la protagonista parla un linguaggio antico, carico di allusioni alle precedenti “Medee” della letteratura di ogni tempo. L’enormità dei crimini che saranno imputati alla protagonista è ben poca cosa rispetto all’enormità atavica dei crimini commessi da Giasone, l’argonauta, l’archetipo del conquistatore e colonizzatore: «Medea è dichiarata in arresto per esercizio abusivo della professione medica, aborto clandestino, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, occupazione abusiva, usufrutto fraudolento di immobili e associazione a delinquere» (p. 119).
Nella rivisitazione romanzesca della Mazzilli questa chiave di lettura emerge soprattutto nella sezione dell’opera dedicata alla ricostruzione della morte di Absirto: mentre nel mito egli viene ucciso e fatto a pezzi dalla sorella Medea in fuga dalla Colchide (un espediente per rallentare l’inseguimento del padre Eeta, costretto a raccogliere le membra del figlio), nel romanzo il bambino muore in alto mare per la crudeltà e l’egoismo di Giasone. Trasfigurato in uno scafista guidato solo dalla logica del profitto, durante il viaggio in mare dalla Colchide alla Grecia, egli si rifiuta di fornire al bambino l’acqua vitale: «Le onde inviate da nostra madre Idia vestirono di spuma quelle ossa. Giasone invece molto tempo dopo le rivestì di carne viva nella sua immaginazione di mistificatore, insufflò il calmo respiro di un bambino vivo nel sordo carapace di un cadavere in balia del mare e della sete, inventò una sorella, selvaggia come le donne di Lemno, che smembra un bambino sano, paffuto, ben alimentato, solo per sfuggire all’inseguimento del padre. No, mio padre non mi cercava, troppo lontana era la Colchide dalla nostra deriva» (p. 125).
Ma Medea è anche, etimologicamente, “colei che medita un progetto”: il progetto, in questa riscrittura bruciante di attualità, è un centro di accoglienza per migranti, organizzato proprio da lei stessa. La vicenda, infatti, è volutamente collocata in una Grecia periferica, di frontiera: la parte più orientale e settentrionale, più esposta alla pressione migratoria dall’Oriente tormentato dalle guerre e dal vicino continente africano inaridito dai cambiamenti climatici: «Avevo visto altri popoli venire a piedi, in affollate carovane, come si muovono le formiche in file ordinate, inarrestabili. Dall’Albania, dalla Macedonia, da terre vicine a quelle dei miei padri: procedevano in esodi pacifici, rassegnati, interminabili, ed io immaginavo che l’ultimo profugo della carovana fosse ancora nella sua terra. La Grecia sembrava di nuovo il centro del mondo. Ma loro li vidi venire dal mare nell’itinerario fantastico delle mie veglie notturne e diurne, nel pelago che anch’io migliaia di anni prima avevo attraversato. Siriani, pachistani, iraniani. Poi arrivarono somali, eritrei, nigeriani, sudanesi, senegalesi, burkinabé, marocchini, tunisini e algerini. Quasi sempre transitavano dall’Egitto a Creta per arrivare di isola in isola fino a noi» (p. 69).
Attraverso l’accoglienza ai migranti, Medea si riappropria del proprio passato di principessa di Colchide: in un momento in cui credeva di essersi integrata, dopo vent’anni di radicamento in Grecia, è costretta a portare alla luce la fragilità del suo equilibrio ambientale dentro la nuova comunità che ha finto di accoglierla, in una farsa che declina inevitabilmente in tragedia. Medea finalmente smette di guardare i Greci con gli occhi dei Greci e dà voce ai migranti, kophà prósopa (comparse mute), in un teatro globale di violenza e sopraffazione. Così, dà voce anche a se stessa, mentre la follia della Storia si abbatte inesorabile su vincitori e vinti, padroni e succubi, nelle sembianze di una forza ineluttabile che è quella degli eventi anomali, degli incendi, delle catastrofi climatiche, attraverso pagine che sono una continua denuncia della rapina dell’umanità nei confronti della natura e delle risorse del pianeta.
Le immagini: la copertina del libro Io sono Medea e alcune raffigurazioni artistiche del mito.
Isabella Spadavecchia
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 184, aprile 2021)