Il coronavirus non è la sola minaccia in questo periodo: si aggiunge infatti il proliferare di “fake news” portatrici di pericolosi allarmismi e informazioni sbagliate
Parallelamente al coronavirus è dilagata un’altra pandemia, quella informativa, prontamente ridefinita infodemia, «una metaforica epidemia di informazioni false o fuorvianti che si propagano con il diffondersi su larga scala di una malattia infettiva» (per approfondire la nascita e l’utilizzo del termine clicca qui). Un grande quantitativo di notizie, video, foto legate all’emergenza in corso, che è circolato su tutti i mezzi di comunicazione, dalla tv ai social, dalla radio a Whatsapp, e che in molti casi si è rivelato fasullo o incompleto. Se per la Covid-19 la cura non è ancora stata individuata, quella per difendersi ed evitare il dilagare di allarmismi (inutili) esiste e richiede l’impegno di tutti.
Con l’avvento di internet e dei social media, ognuno di noi è diventato un possibile divulgatore di informazioni e, grazie alle potenzialità del web, ogni messaggio può diventare virale. La comunicazione, infatti, non è più appannaggio solo dei professionisti e degli organi ufficiali (purtroppo anche questi non sempre garanzia di qualità): tutti abbiamo l’enorme potere non solo di produrre ma anche di veicolare notizie. Se diamo un’occhiata alla mappa di diffusione dei social network nel mondo (Facebook, con oltre 2,5 miliardi di utenti mensili, è il più utilizzato in 151 dei 167 Paesi analizzati, pari al 90% del globo terrestre) e, soprattutto, alla mappa di diffusione delle social app (Whatsapp ha 2 miliardi di utenti) è evidente come un messaggio non possa arrivare in quasi ogni angolo del pianeta. Quanti video allarmisti avete ricevuto in chat dall’inizio della pandemia? Quante note vocali di medici, epidemiologi, pediatri, virologi, insegnanti, avvocati che spiegavano la pericolosità del virus, i rischi legati alla malattia, il modo corretto di compilare l’autocertificazione per non avere problemi penali? Io non li conto più. E, soprattutto, quanti di questi messaggi avete compulsivamente inoltrato ai vostri amici, parenti, conoscenti, colleghi?
Le “fake news” ci sono sempre state; le informazioni false o distorte che viaggiano di bocca in bocca esistono dall’inizio dei tempi. Ma se prima di internet rimanevano circoscritte alla cerchia dei contatti diretti (familiari/conoscenti/paesani), oggi un messaggio postato su Facebook o inviato in una chat di Whatsapp non ha limiti di diffusione, con tutti i rischi che questo comporta: in una fase di piena emergenza sanitaria, notizie sbagliate possono generare comportamenti pericolosi per il singolo e per la collettività (qui il Ministero della Salute ha raccolto quelle che sono circolate di più all’inizio della pandemia).
Come si può risolvere il problema? Oltre alla discussa (e discutibile) task force anti fake news messa in atto dal governo (peraltro sparita nel nulla), oltre ad alcuni provvedimenti presi dagli stessi canali di comunicazione (per esempio, Whatsapp impedisce che un messaggio già virale possa essere inoltrato contemporaneamente a più persone), la grande svolta in questo sistema connesso, incontrollabile, rapido, capillare è la responsabilità individuale. Se per un giornalista diffondere notizie verificate fa parte del lavoro (anche se non succede sempre, purtroppo), il singolo cittadino si sente libero da un simile obbligo, ma chi condivide un messaggio “dubbio” è colpevole tanto quanto chi lo crea. In un recente webinar dedicato proprio al diritto all’informazione, la giornalista Rosy Battaglia ha parlato del problema più generale della disinformazione: contenuti manipolati, contesti falsi, titoli o immagini fuorvianti sono elementi che contribuiscono a distorcere la realtà, a renderla più equivoca e modificabile. Le fake news circolano velocemente perché sono semplici, convincenti e rassicuranti, a differenza delle fonti ufficiali, in questo specifico caso medico-scientifiche, spesso difficili, scritte con linguaggio tecnico e che comportano un grande sforzo da parte del lettore.
Se da un lato è giusto chiedere (e pretendere) da parte delle istituzioni comunicazioni facili, comprensibili, non elaborate in burocratese né che necessitino di rettifiche e spiegazioni continue (come i “congiunti” della fase 2), ognuno di noi nel momento in cui legge una notizia ha il dovere di verificarne le fonti prima di diffonderla. O, perlomeno, deve appellarsi al proprio spirito critico: il vocale dell’amico medico arrivato dal collega tramite un altro amico, forse, non è la testimonianza su cui basare scelte e comportamenti di condivisione, specialmente durante una pandemia. Qualora non fosse possibile controllare la veridicità di una news, meglio usare la prudenza e, nel dubbio, astenersi. Diffondere informazioni attendibili e corrette è una responsabilità sociale, ora più che mai, esattamente come indossare la mascherina: serve a proteggere noi stessi e gli altri.
Elena Giuntoli
(LucidaMente, anno XV, n. 173, maggio 2020)