In un’epoca in cui il raggiungimento dei “followers” è più facile di quello del quorum, ecco i rischi e le potenzialità della politica sul web
«Convincere qualcuno a votare un partito non è molto diverso da convincerlo a comprare una certa marca di dentifricio». Pare lo ripetesse spesso Richard Robinson, uno dei manager di Cambridge Analytica, l’azienda di consulenza che nel 2018 fu coinvolta in un enorme scandalo assieme al politico Donald Trump. Quest’ultimo fu infatti accusato di aver carpito illegalmente ‒ in particolare da Facebook ‒ i dati di milioni di persone servendosi proprio della società britannica e di averli poi utilizzati per vincere le elezioni presidenziali americane.
La frase di Robinson stimola diverse riflessioni. Possono le piattaforme online condizionare non solo le scelte di acquisto ma pure quelle etico-morali, rendendo intercambiabile un dentifricio e un voto? La risposta non è così immediata, poiché sono tanti e complessi gli elementi da analizzare. Abbiamo la cosiddetta “arte di vendere”, il marketing, che è ormai una disciplina pubblicitaria utilizzata in tutti i contesti del quotidiano (dall’umanitario al sanitario, passando per il commerciale e il sociale), e abbiamo il web, che gode di un pubblico vasto e particolarmente recettivo. Abbiamo i vettori del messaggio elettorale, che possono essere Facebook, Instagram o YouTube tramite banner propagandistici, oppure persone fisiche: gli influencer. L’affluenza sui loro profili (seppure escludendo i fan minorenni, che dunque non possono votare) è spesso più nutrita di quella alle urne. I seguaci ripongono fiducia nei loro consigli e vengono, appunto, influenzati da ciò che essi dicono e fanno. Sono i veri protagonisti del mondo virtuale, i principali produttori di contenuti.
Gli “influencer” nascono come personaggi pubblici, provenienti dal mondo della televisione, della musica, della cultura o di internet stesso. Divengono “venditori” nel momento in cui le aziende li contattano e propongono loro di sponsorizzare determinati prodotti o servizi. Una formula che funziona alla grande, come dimostra la crescita esponenziale di queste figure negli ultimi anni.
La provocazione lanciata da Robinson non sembra più così assurda. Gli influencer sono, fondamentalmente, persone a cui si aspira ad assomigliare sia imitandone gli acquisti che il comportamento. La sfera sociopolitica è sì un territorio delicato ma tutt’altro che inespugnabile, soprattutto se si parla di generazioni giovani che stanno ancora plasmando la propria coscienza e il proprio posto nel mondo. Nelle campagne elettorali degli Stati Uniti si è già iniziato a comprenderne le potenzialità: i democratici Kamala Harris, Bernie Sanders e Andrew Yang hanno chiesto ad alcune star dei social di aiutarli nelle primarie o anche solo di incitare i followers a registrarsi per votare. L’astensionismo in America è infatti tra i più alti dell’Occidente ed è per questo che i politici spingono la popolazione a esprimersi, soprattutto nelle zone in cui sanno di avere la maggioranza (La politica americana sta tirando dentro gli influencer, Il Post).
Questo tipo di comunicazione è talmente efficace che i politici stessi si trasformano, talvolta, in influencer per autopromuoversi. Scorrendo la pagina Facebook di Matteo Salvini lo si può evincere chiaramente: il segretario leghista non condivide solo slogan elettorali ma anche parte della sua quotidianità, fra foto di lauti pasti o di giornate al mare.
Tornando alla questione iniziale: possono le piattaforme online, almeno in parte, determinare l’andamento di un’elezione? Non è facile stravolgere completamente le convinzioni di un utente, anche perché le personalità che egli sceglie di vedere sui social sono spesso quelle allineate con la sua mentalità. Tuttavia è possibile promulgare idee, concetti che abbiano in sé una componente politica. È successo, ad esempio, dopo la morte del giovane Willy Monteiro Duarte, quando una serie di personaggi famosi si è schierata contro un clima di razzismo e intolleranza ritenuto terreno fertile per aggressioni simili. In quell’occasione, l’influencer ante litteram Chiara Ferragni ha parlato di fascismo, il rapper Ghali ha accusato molti suoi colleghi di chiudere un occhio sulle realtà di estrema destra che li circondano e di non prendere posizione per comodità. Reazioni del genere si sono avute riguardo temi come il cambiamento climatico e l’omofobia. Ecco come una mera operazione di marketing può avere risvolto positivo: fare politica online non implica necessariamente assoggettarsi a un partito, ma anche solo sfruttare la propria notorietà per spronare le folle al pensiero critico su certi argomenti, comunicare loro: “Io prendo una posizione, tu che hai intenzione di fare?”.
Le immagini: Donald Trump (The Daily Beast), Matteo Salvini (Valeurs Actuelles), Chiara Ferragni con il suo post su Instagram (Giornalettismo).
Alessia Ruggieri
(LucidaMente 3000, anno XV, n. 178, ottobre 2020)