Proponiamo, commentata da Giuseppe Licandro, una delle “storie” facenti parti di Racconti incantati di Rocco Chinnici (collana La scacchiera di Babele, Edizioni di LucidaMente, pp. 98, € 12,00). L’ovattata stupefazione, i vibratili calori e la magica atmosfera fuori dal tempo, appartenenti a un mondo contadino arcaico e caritatevole, sono forse le caratteristiche più costanti della raccolta, come è possibile scorgere nel seguente testo, molto toccante.
Stanco, dormiva disteso sotto la grande quercia; Igor, un vecchio segugio dal pelo crespo, suo fedele amico, ansava con la lingua penzoloni. La calura estiva si faceva sentire; e in quel corpo, abituato a sfidare persino le intemperie, ma oramai debole e consumato dagli anni, l’afa aveva oramai avuto il sopravvento.
“Carminiddu”, lo chiamavano in paese, non perché avesse un’esile figura, anzi riusciva con le sue enormi e poderose braccia a cingere persino una secolare quercia che adombrava quasi mezzo tumulo di terra. Quel “Carminiddu”, diminutivo di Carmelo, uso consueto di storpiare i nomi nei paesi del Meridione, specie nel paesino di Belmonte Mezzagno, e farli divenire sempre più piccoli, era sicuramente dovuto all’innata cultura contadina dell’economia. Il senso del risparmio era quasi un’ossessione per la gente del luogo.
Il suo primo nome avrebbe dovuto essere Cristoforo, come quello del nonno paterno; Carminiddu gli era sicuramente arrivato da mamma Teresa per via della devozione alla madonna del Carmelo: donna pia, dall’animo puro, quasi in via di beatificazione.
“Bisogna lavorare, lavorare e amare il prossimo senza dimenticare di lodare e servire Dio” non si stancava mai di ripeterlo al suo Carminiddu, il quale cresceva sempre più timorato da Dio, e, nello stesso tempo, orgoglioso, orgoglioso e fiero di essere un buon soldato di Cristo.
Il senso dell’economia in lui era oramai diventato un chiodo fisso: gli avanzi non andavano gettati, quale che fosse stata la loro origine. Quante volte il pane rimasto del giorno prima si conservava avvolto in un tovagliolo di stoffa per il giorno dopo e per altri a venire!
“C’è il corpo di nostro Signore Gesù Cristo, nel pane; non bisogna gettarlo per terra” ripeteva Teresa nel veder tozzi di pane in strada, buttato da gente che poteva permettersi simili sfarzi.
Persino durante la raccolta delle olive, Carminiddu dava grande esempio di economia. Col sacco pieno si chinava a raccattare un’oliva, lungo il tortuoso viottolo che conduceva al magazzino, evitando così di calpestarla, la metteva dentro una delle due grosse tasche, quasi sempre rattoppate, e, orgoglioso, la buttava in mezzo alle altre, una grossa montagna di olive messa in attesa di essere trasportata al frantoio per la macina; e pensare che se ne calpestavano tante durante la raccolta, ma quella lì sul viottolo, per Carminiddu, stanco sotto il pesante fardello e col rischio anche di una maldestra caduta, rappresentava il vero frutto dell’economia, il non lasciare per strada il bene che Iddio ci dona: essa, quindi, doveva essere presa ad ogni costo.
Ricevette un duro colpo per la perdita di mamma Teresa. Il padre gli era venuto a mancare quando ancora andava alle elementari, in seconda precisamente, perché fu a quel punto che ebbe a lasciare gli studi; studi per modo di dire, era riuscito appena a saper scrivere il suo nome, e lui era già abbastanza fiero di questo e quasi s’inorgogliva nel vedere invece i suoi coetanei, in età avanzata, apporre il segno della croce nei documenti.
Avrebbe potuto diventare sacrestano della Chiesa Madre se lo avesse voluto: don Luigi ne sarebbe rimasto molto contento se Carminiddu avesse accettato quando glielo aveva chiesto. Lui, niente, preferiva lavorare nei campi e stare a contatto con la natura, quella vera, dove si può ancora assaporare il tubare dell’allodola in amore, il raglio dell’asino stonato, lo squittire delle rondini al tramonto, gli odori dei fiorellini di prato appena sbocciati e tante altre bellezze che solo madre natura sa regalarti.
Quel dì del mese d’agosto si faceva sentire, e all’ombra della possente quercia, l’appiccicosa calura infastidiva come non mai prima; persino il dispettoso frinire della cicala smise di sentirsi, tanto che Igor riuscì a prendere sonno ai piedi del suo padrone.
Un raggio di sole, creatosi un leggero varco tra i fitti rami, andò a posarsi sulla fronte di Carminiddu, destandolo.
I grandi occhi scuri, nel viso scarno ed increspato, fissavano ora il vuoto, sfogliando pagine di vita vissuta, mentre sul pero, accanto, una gazza, assaporando un frutto ancora acerbo, guardava Carminiddu, frastornato da quel capriccioso raggio di sole.
“Amare il prossimo”, si ripeteva, solo e abbandonato da tutti. E’ facile dire prossimo; il difficile è esserlo. Quanto amore donato, quanto aiuto dato, quante volte un pezzo di pane ebbe a dividerlo in due, in tre, per donarlo a quel prossimo, senza assaggiarne un boccone… e ora, era lì, solo, dimenticato persino da chi aveva vestito i suoi panni in uno degli inverni rigidi.
A Carminiddu le forze sembrava stessero per abbandonarlo; Igor capì quanto stava per accadere e cominciò – latrando – a leccare le mani del suo padrone. La gazza sembrava leggesse negli occhi tristi dell’uomo l’amara delusione della sua umile vita, e non sapeva che fare; smise di beccare il frutto e si mise a pensare come potere intervenire per alleviare quello sconforto, l’ultimo.
Non si può morire pensando che nessuno ti ama, che qualcuno non ti stia vicino in quel breve passaggio di frontiera che è la morte, bisognerà fare qualcosa, pensò lesta la gazza, e cominciò, nel suo linguaggio, a chiamare più animali che poteva. Così avvenne una sorta di miracolo: in un batter d’occhio, sotto la grande quercia si radunò un numerosissimo gruppo d’ogni genere d’animali, improvvisando un bellissimo concerto. L’uomo raccolse le ultime forze e guardò tutti: dal coniglio allo scoiattolo, dall’allodola al cuculo.
Poi abbassò lo sguardo, ed una lacrima bagnò Igor, intento a leccare il corpo di Carminiddu, che sussurrava “grazie”, spegnendo gli occhi commossi, nel vedersi circondato da quel grande e sincero amore d’animali.
(Carminiddu)
Rocco Chinnici
L’autore è nato il 2 settembre del 1947 a Belmonte Mezzagno, un paesino di circa diecimila abitanti, dedito all’agricoltura (olio di primissima qualità) e alla pastorizia (si produce un ottimo caciocavallo e del buon pecorino). Il paese, disteso in una vallata, è circondato dai monti che sovrastano Palermo, e sembra, come un bimbo in una culla, dormire beato un lunghissimo sonno. Le prime notizie su Belmonte risalgono al 1400.
L’origine dei Chinnici in Sicilia gli fu rivelata dal suo omonimo, il giudice Rocco Chinnici, caro amico, ucciso poi barbaramente dalla mafia, che gli raccontava: “Un giorno di tanto tempo fa (1720 circa), nel porto di Palermo, sbarcarono, provenienti dalla lontana Inghilterra, un gruppo di gente; non si seppe con certezza se questi venivano per commercio o per altro. Dopo tanto vagare arrivarono a Sommatino (un paesino dell’entroterra fra Riesi e Canicattì). Non sapevano in paese il perché della loro venuta, il motivo insomma che li aveva spinti a Sommatino; erano tempi in cui la Sicilia era invasa da popoli diversi. Di certo, gli abitanti del paese capirono che intenzione dei nuovi arrivati era quella di rimanere a Sommatino. Il tempo passava; al Comune decisero che dovevano regolarizzare anagraficamente i nuovi ospiti, ma come? Con quale nome, se nemmeno li conoscevano? E intanto che si pensava il da farsi e quale nome loro assegnare, il sindaco di quel tempo ebbe un’idea geniale, disse: “Li chiameremo Chinnici!”. Erano quindici, infatti, nel gruppo; ed è così che ancora oggi difatti si pronunzia, là, in quel paesino, il numero 15″.
L’attività letteraria del nostro Rocco Chinnici comincia in piena età giovanile con la stesura di numerose poesie scritte in lingua italiane e in dialetto siculo. Si tratta di componimenti in cui le numerose immagini idilliache e le metafore si intrecciano con un forte impegno di carattere sociale, argomento centrale che li accomuna pur nell’infinita diversità dei temi.
Accanto a questa venatura poetica, egli vanta uno spiccato talento teatrale che gli ha permesso non solo di comporre una quindicina di opere (tra cui commedie e drammi), ma di essere anche il regista che ha permesso l’effettiva realizzazione di alcune di esse.
A circa 30 anni, Chinnici scrive il suo primo dramma, dal titolo Il seme del male, il cui successo ha solidamente inaugurato la sua futura attività. Da allora, infatti, egli ha continuamente mantenuto questo amore e questo interesse per il teatro che lo ha portato a rappresentare anno per anno, in diverse zone della Sicilia, gli scritti suoi e di altri. Leggendo le sue opere, possiamo rintracciare degli elementi salienti: si tratta di valori fondamentali come la famiglia, le tradizioni, la lotta contro la mafia. Ancora oggi continua a lavorare in ambito teatrale dirigendo l’associazione da lui stesso fondata, “La Bottega dei Sogni”, associazione culturale a sfondo teatrale. Inoltre il drammaturgo è impegnato socialmente con i disabili e i ragazzi della scuola media e gli scolari delle elementari di Belmonte Mezzagno, con i quali porta avanti un progetto noto col nome di “Laboratorio Teatrale”.
IL COMMENTO CRITICO
La modernizzazione della società, evento per certi versi inevitabile nell’evoluzione storica della nostra specie, ha comportato lo stravolgimento dell’ecosistema del pianeta, allontanando sempre più l’umanità da un sano e fecondo rapporto con la natura.
Le progressive fasi della rivoluzione industriale, apportatrici di indubbi vantaggi tecnologici, hanno gradualmente devitalizzato gli esseri umani: gran parte di loro, infatti, ha finito per rinchiudersi in smisurate strutture artificiali, trascorrendo una porzione sempre maggiore del proprio tempo ad interagire con le macchine, in una sorta di culto feticistico che rende ciascuno più alienato e nevrotico.
Già nel Settecento Jean-Jacques Rousseau aveva argutamente compreso i rischi insiti nella “snaturalizzazione” dell’uomo indotta dall’avvento della modernità – allora solo agli albori. Più recentemente, pensatori come Martin Heidegger o Hannah Arendt hanno indicato nel trionfo della tecnica il “destino dell’Occidente”, che ha smarrito il senso più autentico dell’essere delle cose, costruendo un mondo assolutamente artefatto e innaturale.
Bellezza e dolore nella vita dei campi – Nel breve ma intenso Carminiddu, in contrasto con la civiltà odierna, Rocco Chinnici ci riporta in un arcaico mondo rurale, nel quale emergono prepotentemente i suoni, le visioni e gli odori che rendono amabile la natura (“il tubare dell’allodola in amore, il raglio dell’asino stonato, lo squittire delle rondini al tramonto, gli odori dei fiorellini di prato appena sbocciati e tante altre bellezze che solo madre natura sa regalarti”). Certo, un tempo la vita nei campi era molto dura e faticosa (e lo è ancora oggi, per migliaia di lavoratori stagionali): lo scrittore siciliano ne è pienamente consapevole, quando descrive Carminiddu “stanco sotto il pesante fardello e col rischio anche di una maldestra caduta” o lo coglie intento ” a raccattare un’oliva” e a conservare il pane raffermo “in un tovagliolo di stoffa per il giorno dopo e per altri a venire”. Non c’è, dunque, nella prosa di Chinnici l’immersione idillica dentro il paesaggio, bensì si percepisce una visione ambivalente del mondo campestre, intrisa di un sentimento di dolore che funge da contrappeso alla contemplazione estetica.
Una sorta di pet therapy – Ma questo sentimento doloroso non scaturisce nel protagonista solo dagli aspetti “matrigni” della natura, che pure sono ben individuati all’inizio del racconto (“La calura estiva si faceva sentire; e in quel corpo, abituato a sfidare persino le intemperie, ma oramai debole e consumato dagli anni, l’afa aveva oramai avuto il sopravvento”) e si materializzano, infine, in “quel capriccioso raggio di sole”, che lo frastorna in punto di morte. La sua sofferenza, in verità, è soprattutto morale: nasce dalla solitudine e dalla disillusione sulla bontà del prossimo, che lo ha abbandonato proprio nel momento di maggior bisogno, nonostante egli sia sempre stato generoso e altruista. Tuttavia, in un commovente e fiabesco finale, un ultimo istante di gioia viene concesso al pio Carminiddu dal cane fedele che lo assiste e da un nugolo di animali selvatici che lo consolano durante l’agonia coi loro versi eufonici, rendendogli più dolce il trapasso – come in una sorta di estrema pet therapy. Chinnici, dunque, ci invita a recuperare un rapporto più armonico con la natura e a preservare con profondo rispetto gli esseri meravigliosi che la popolano, dei quali – in tutti i sensi – non possiamo fare a meno.
L’immagine: Attrezzi (tecnica mista pastello e acquerello) di Germana Luisi, per la copertina del libro.
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno I, n. 2 EXTRA, supplemento al n. 10, 15 ottobre 2006)