Dopo l’ennesima strage in mare, l’Ue decide di rivedere le proprie politiche sui migranti nel Mediterraneo
Qualcosa si muove dalle parti di Bruxelles. L’Unione europea ha finalmente preso atto delle palesi difficoltà che Paesi come Italia, Grecia e Malta incontrano, ogni giorno, nella sfida all’immigrazione incontrollata attraverso il mar Mediterraneo.
È stata necessaria l’ennesima ecatombe per suscitare nelle istituzioni europee la quantità di sdegno sufficiente a rivedere le politiche comunitarie sull’immigrazione. Si tratta di politiche che vantano ormai una lunga tradizione, risalenti alla Convenzione di Dublino del 1990, con le varie modifiche apportatevi negli anni. Politiche che hanno prodotto incertezza e iniquità, incontrando le forti critiche di molti enti internazionali, tra cui l’European Council of Refugees and Exiles (Ecre) e L’United Nations High Commissioner for Refugees (Unhcr), nonché di numerose organizzazioni non-governative. Ma cosa c’è che non va in questo apparato normativo che si può riassumere con la denominazione “Programma di Stoccolma”? Il problema principale è racchiuso nella ricerca di un’unità di intenti che, in realtà, non esiste. I Regolamenti di Dublino che hanno innovato l’omonima Convenzione prevedono un sistema di gestione dei rifugiati secondo il quale spetta allo Stato che ha svolto il maggior ruolo in relazione all’ingresso e al soggiorno del richiedente (in sostanza, il Paese d’ingresso del migrante) la gestione della domanda d’asilo.
Ciò comporta una forte sperequazione, dovuta alle differenti vedute di ogni Stato membro sul tema dell’immigrazione. Secondo dati Eurostat, nel 2009 e nel 2010 soltanto il 25% delle richieste di trasferimento in un altro Stato è andato a buon fine. Ciò non solo ha fatto in modo che gli Stati che fungono da porto d’accesso dei migranti (come l’Italia) siano rimasti isolati nella gestione del fenomeno, ma ha anche generato una grande quantità di famiglie smembrate, divise da chilometri di distanza e muraglie di burocrazia.
La nuova agenda europea discussa in questi giorni dalla Commissione propone il superamento di questo sistema fallace, portando a ciò che il ministro italiano dell’Interno, Angelino Alfano, ha definito «la rottura del muro di Dublino». L’arbitrarietà sarebbe sostituita da un sistema di quote obbligatorie per cui a ciascuno Stato membro spetterebbe una quota fissa di migranti, calcolata sommando una serie di indici, quali il numero di abitanti, il Pil, la quantità di profughi già presenti nel Paese e il tasso di disoccupazione. In ragione di questo calcolo all’Italia spetterebbe l’11,84% dei richiedenti asilo, ma, a seguito del già grande ruolo svolto negli anni, sarebbe esonerata dalla prima tranche di domande.
La Commissione ha l’ambizione di portare, nel 2016, all’ennesima modifica del sistema di Dublino, ma misure emergenziali potrebbero essere già discusse nel vertice europeo del 25 e 26 giugno. Alcuni Stati, però, si sono già dichiarati nemici di questo sistema di quote. Contrari, ma comunque destinatari delle nuove politiche, sarebbero Ungheria, Polonia, Lituania, Slovacchia e Repubblica ceca. Regno unito, Danimarca e Irlanda, invece, ricorrendo alla clausola di opt-out, hanno deciso di rimanere totalmente estranee al nuovo corso.
Riccardo Camilloni
(LM EXTRA n. 32, 20 maggio 2015, supplemento a LucidaMente, anno X, n. 113, maggio 2015)