Terra rossa che si alza mentre passa la jeep. Bambini che ci rincorrono, urlando parole incomprensibili in kinyarwanda. Manifesti di Paul Kagame ovunque, per le vie, per le pareti delle case e dei luoghi pubblici. Palme di banane costellano i campi e corrono insieme a noi lungo le strade sterrate. Questa la prima “fotografia” del Rwanda.
Abasungo! Abasungo! riusciamo a distinguere tra le grida dei bambini. Uomini bianchi! Uomini bianchi!; parole che mi fanno pensare che, non conoscendo i nostri nomi, ci identificano con il colore della pelle. Le urla proseguono e i nostri interrogativi pure. La religiosa che ci accompagna in jeep ci informa delle loro richieste. Ci domandano se abbiamo delle bottiglie vuote: in questa regione il trasporto dell’acqua è difficoltoso e per i piccini sarebbe impossibile trasportare le taniche, riempite e portate dalle madri, perciò sono sempre alla ricerca di contenitori più piccoli.
Volti che parlano senza proferire parole, cercano un contatto, ma molti ruandesi non conoscono il francese o l’inglese. Nelle zone di campagna sono incuriositi non solo dal colore della nostra pelle, ma anche dalla consistenza dei nostri capelli. Cicatrici lunghe e profonde sui corpi e sui visi di tanti di loro, i sopravvissuti al genocidio. Troppi i libri letti in proposito, tanto che desta inquietudine vedere un uomo passeggiare con un machete infilato nella cintura. Si cerca di distinguere un hutu da un tutsi, mentre un twa lo si può riconoscere a distanza per la bassa statura e i lineamenti molto particolari del volto. Ci spiegano che, a seguito dei matrimoni misti, le due classi sociali si sono “mescolate”, perciò i tutsi hanno in parte perso l’altezza e il viso longilineo e allungato, mentre gli hutu non sono più caratterizzati da una statura piuttosto bassa, dalla testa arrotondata e dal naso grassoccio e schiacciato.
Le donne trasportano i pesi sulla testa e i bambini sul dorso legati con un panno. Passeggiando per le strade polverose si incontrano mentre trasportano qualsiasi cosa sul capo, sullo sfondo delle “Mille colline” per cui il paese è famoso. Colline disseminate di terrazze di terra per le coltivazioni e di capanne in fango. Quelle posteriori alle distruzioni del genocidio possiedono il tetto in lamiera. E colline che ricordano anche la tristemente nota Radio Milles Collines, i cui speakers incitavano gli hutu contro tutsi, chiamandoli scarafaggi. Gli uomini sorseggiano birra di banana o di sorgo all’ombra degli alberi o delle case. Hanno l’usanza di camminare per mano per strada, mentre le coppie non sono solite scambiarsi effusioni in pubblico.
È raro incontrare rifiuti o bidoni per la spazzature per le strade di campagna. Tutto viene riciclato e riutilizzato oppure bruciato. I bambini per esempio sono in grado di trasformare, con l’aiuto di un adulto, delle lattine di bibite in macchinine di latta, diventate talmente tipiche, che in città si vendono nei negozi di souvenir. Anche un vecchio copertone di bicicletta, corredato di bastone, può diventare un divertentissimo passatempo; i bimbi lo fanno girare con il legno: quando ruota e bastone sono abbastanza coordinati, si comincia a correre. I più fortunati sono in possesso di una specie di monopattino di legno, il cui utilizzo è abbastanza difficoltoso non essendo dotato di pedali e se si tiene conto della conformazione collinare del territorio.
L’immagine: una donna ruandese trasporta del legname.
Francesca Gavio
(LM MAGAZINE n. 12, 20 agosto 2010, supplemento a LucidaMente, anno V, n. 56, agosto 2010)