Continua con lugubre regolarità la strage dei migranti politici, nell’inerzia di Ue e Onu. Da Reggio Calabria una lezione su come gestire l’“emergenza immigrati”
Come tutte le testate e i media nazionali e internazionali, anche LucidaMente si è a lungo domandata se e come pubblicare le tragiche e sconvolgenti immagini di Aylan, il bimbo curdo-siriano morto sulle coste turche (tra l’altro, proveniente dalla città simbolo della resistenza curda anti Isis: Kobane; vedi l’editoriale di ottobre 2014 del direttore). Da un lato ci sono le ragioni del rispetto per la piccola vittima e della sensibilità e pietà umana, pure verso i lettori. Dall’altro, lasciando perdere il chiacchierato “diritto di cronaca”, c’è la speranza che quelle orrende foto diventino simboliche, siano in grado di risvegliare qualche coscienza, come successo, nel corso della storia recente, con quelle di altri minori: i ragazzini ebrei del ghetto di Varsavia durante la Seconda guerra mondiale o la bimba vietnamita scampata ma ustionata dal napalm statunitense. Alla fine, abbiamo deciso una soluzione mediana: stampare queste immagini tremende (vedi anche l’editoriale di settembre 2015 del direttore) però con particolari accorgimenti grafici, sia per rispettare le vittime, sia per dare nuova vita alla denuncia, visto che, nel momento in cui usciamo, sono già note al grande pubblico e forse ormai sono state addirittura già “digerite”. Con l’auspicio – forse illusorio – che scuotano un mondo, un Occidente e un’Europa addormentati e insensibili. E che il potere civile intervenga politicamente e militarmente per annientare i guerrieri di morte e i mercanti di esseri umani.
Le immagini di Aylan Kurdi, il bimbo siriano annegato insieme alla madre e al fratellino sulle coste turche, hanno scosso l’opinione pubblica mondiale, riproponendo tragicamente l’urgenza di trovare una soluzione razionale all’“emergenza profughi”che sta attanagliando gli stati del Mediterraneo. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), nel 2015 oltre 300 mila persone hanno tentato di sbarcare sulle coste europee, con un bilancio impressionante di vittime: si stima, infatti, che il numero dei morti e dei dispersi abbia superato le 2.500 unità.
Siamo di fronte a un esodo di dimensioni bibliche che affonda le proprie radici nella realtà caotica nella quale vivono molti Paesi asiatici e africani, in particolare l’Afghanistan, l’Etiopia, l’Iraq, la Libia, la Siria, la Somalia e il Sudan, sconvolti da sanguinose e convulse guerre civili. Sono chiare le responsabilità della Nato che questi conflitti armati ha scatenato esplicitamente o fomentato indirettamente, forse anche per tutelare gli affari legati all’estrazione del petrolio e per il controllo di gasdotti e oleodotti. Gli Usa e i loro alleati, infatti, hanno deciso di abbattere con la forza i regimi considerati ostili, senza considerare però che i cosiddetti “stati canaglia” spesso non costituivano una reale minaccia sul piano militare, ma garantivano un certo equilibrio regionale, impedendo il diffondersi dell’integralismo islamico. Ha ragione, pertanto, Angelo D’Orsi quando auspica che l’Europa ponga fine a ogni politica imperialistica e «rinunci a […] eliminare i leader scomodi, da Milosevič a Gheddafi, da Saddam Hussein ad Assad, senza preoccuparsi delle conseguenze» (vedi Finis Europae? La tragedia dei migranti e le colpe dell’Occidente, in http://temi.repubblica.it/micromega-online).
A peggiorare la situazione del Medioriente si è aggiunta la comparsa dell’Isis: il gruppo fondamentalista islamico ha costituito nel 2014 un sinistro califfato tra la Siria e l’Iraq, tentando di espandere i propri tentacoli anche in Libia. Tutto questo, grazie all’ambiguo sostegno di alcuni Paesi islamici (Arabia Saudita, Qatar, Turchia) e alla sostanziale indifferenza della Nato, che ha preferito delegare all’eroico popolo curdo il compito di difendere i confini dell’Occidente dall’attacco dell’estremismo sunnita (vedi I “peshmerga”, guerrieri della libertà e I kurdi in Turchia, un popolo privato dei diritti civili). L’unica nota positiva è rappresentata dal recente accordo tra l’Iran e gli Usa, che ha posto fine all’isolamento internazionale del regime degli ayatollah, lasciando intravedere una maggiore stabilità politica nel futuro del Medioriente.
Nell’ecatombe dei rifugiati nel Mediterraneo vi sono responsabilità ben precise: la protervia delle organizzazioni criminali che gestiscono senza pietà il traffico di esseri umani; i loschi interessi di chi specula sull’“emergenza immigrati”; il comportamento irresponsabile di alcuni stati dell’Unione europea come Francia, Gran Bretagna, Repubblica Ceca e Ungheria, i quali – a differenza della ben più generosa Italia, ma anche di Giordania, Libano e della stessa Turchia – si dimostrano restii ad ospitare sul proprio suolo i profughi, in dispregio delle norme approvate nel 1951 dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati politici. Il filo spinato posto lungo i confini ungheresi dal governo ultranazionalista di Viktor Orbán (vedi Il “golpe bianco” di Viktor Orbán), il marchio sulle braccia dei profughi inciso dalla polizia ceca, le bastonate distribuite ai migranti dagli agenti francesi di Calais, le ipocrite quanto ridicole dichiarazioni rese dal ministro degli Interni britannico, Therese May (vedi Gran Bretagna, stop all’Ue sulla libera circolazione. May: «Stranieri entrino solo se hanno lavoro», in www.repubblica.it ), demoliscono il Trattato di Schengen e testimoniano la rinascita di un minaccioso sciovinismo che tanti danni ha già arrecato all’Europa.
L’Ue e l’Onu dovrebbero svegliarsi dal colpevole torpore in cui versano e impegnarsi per gestire con serietà ed efficienza l’“emergenza immigrazione”. I provvedimenti da adottare sono molteplici: allestire decenti campi profughi sotto il controllo internazionale; vagliare attentamente le domande di asilo e accogliere senza indugio i rifugiati politici; trasferire gli aventi diritto asilo nei Paesi di destinazione senza costringerli a marce forzate nei Balcani o nel Mediterraneo; sgominare le bande di “scafisti” attraverso mirati interventi di polizia coordinati tra varie nazioni.
Non si può più restare inerti a guardare la carneficina che sta insanguinando quello che un tempo fu il Mare nostrum, luogo d’incontro tra popoli diversi. Non ha alcun senso, invece, invocare i presidi armati delle coste italiane e il respingimento indiscriminato dei profughi, se non per sfruttare a fini meramente propagandistici ed elettoralistici l’esodo degli sventurati che fuggono dalle guerre. Una lezione di civiltà è stata impartita da Giuseppe Falcomatà, sindaco di Reggio Calabria (la città italiana più virtuosa nell’accoglienza degli immigrati; vedi Reggio Calabria: la generosità verso i migranti), che ha saputo sistemare decorosamente i numerosi profughi sbarcati recentemente lungo il litorale reggino, impegnandoli poi in lavori di pubblica utilità (vedi Andrea Gualtieri, Migranti, il sindaco di Reggio Calabria: «La città li ha accolti, loro hanno pulito le strade per gratitudine», in www.repubblica.it).
Le immagini: Aylan; la morte dei ragazzini ebrei nel ghetto di Varsavia durante la Seconda guerra mondiale; il filo spinato posto lungo il confine ungherese (fonte: http://magazinedelledonne.it); un gruppo di immigrati e volontari intenti a pulire una piazza di Reggio Calabria (fonte: www.strettoweb.com ).
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno X, n. 117, settembre 2015)