Da cinque mesi, ogni venerdì gli algerini scendono in piazza. Il rifiuto della quinta candidatura dell’ormai ex rais Bouteflika si è presto trasformato in un vero e proprio fenomeno di risveglio popolare in grado di superare i fantasmi della guerra civile
A cinque mesi dall’inizio dell’hirak (22 febbraio 2019), il «movimento», come viene definito dagli algerini, è possibile tracciare un primo bilancio di un fenomeno di riscossa popolare che sta cambiando il volto del paese. La mobilitazione è nata intorno alla metà di febbraio con un unico slogan: «No al quinto mandato del presidente Abdelaziz Bouteflika!» e, trainata dalla forza motrice dei giovani, ha iniziato a occupare ogni venerdì le piazze delle città del paese.
La richiesta di annullamento della candidatura di colui che guida ininterrottamente il paese dal lontano 1999 è stata presto scavalcata da una ben più generale rivendicazione di democrazia e da una decisa richiesta di superamento del «systéme», calcificatosi attorno al clan presidenziale durante gli ultimi vent’anni. A maggior ragione, nei confronti di un presidente che non è in grado di pronunciare un discorso pubblico dal 2013, quando fu colpito da un ictus. I risultati raggiunti in questi mesi vanno oltre ogni previsione e l’assetto politico algerino risulta oggi radicalmente mutato: il contestatissimo presidente ha rinunciato, dopo varie giravolte, alla propria candidatura, presentando contestualmente le dimissioni e gran parte dei membri del cosiddetto “clan presidenziale” sono attualmente in carcere, compresi il fratello del presidente, Said Bouteflika, considerato il vero burattinaio dell’anziano rais, il potentissimo generale Mohamed Mediène, soprannominato Toufik, e grossi nomi del mondo economico. Questi avrebbero, nel corso di vent’anni di appalti di Bouteflika, accumulato vere e proprie fortune e fra di loro figura il noto Ali Haddad, segretario della confindustria algerina.
A rendere ancora più straordinario ciò che sta accadendo sulla sponda sud del Mediterraneo è il contesto in cui la mobilitazione si è sviluppata. L’Algeria non è un paese qualunque e la sua storia recente porta con sé un’eredità pesante. Governata dal 1962, anno della conquista dell’indipendenza dalla Francia a seguito di una durissima guerra di liberazione (ricordata da LucidaMente in questo articolo), fino all’inizio degli anni Novanta dal partito unico del Fronte di liberazione nazionale (Fln), è sconvolta da una guerra civile sanguinosissima, che scoppia nel 1992 e inaugura la stagione del terrorismo islamista nell’area euromediterranea.
In tale occasione, erano state proprio le proteste dei giovani algerini, esplose nel 1988 con l’obiettivo di richiedere la fine del monopartitismo e della dittatura, a dare inizio a un processo di rinnovamento tragicamente interrotto dalla scia di sangue di quello che viene definito il “decennio nero”: la primavera algerina è iniziata con vent’anni di anticipo rispetto alle cosiddette “primavere arabe”, e ne costituisce l’inquietante prodromo. Il ritorno sulla scena del vecchio falco della politica nazionale e internazionale, Abdelaziz Bouteflika, a cavallo fra vecchio e nuovo millennio, pone fine al dramma della guerra civile e apre a una stagione di forte crescita economica. Complice la congiuntura legata all’alto prezzo degli idrocarburi, dai quali l’economia del paese dipende pressoché per intero. Il paese attraversa i primi vent’anni del XXI secolo schiacciato fra lo spauracchio del ritorno del terrorismo e un concreto miglioramento della qualità della vita grazie a enormi investimenti pubblici, definiti da più parti un «tentativo di comprare la pace sociale». In tale contesto, a consolidarsi non è stata tuttavia una nuova società in grado di lasciarsi alle spalle i fantasmi della guerra civile, quanto un nuovo regime, questa volta personalistico e basato su mazzette e corruzione in una commistione di potere politico, economico e militare.
In tal senso, la frustrazione e la stanchezza delle forze più giovani e dinamiche del paese, che non hanno memoria delle bombe e dei massacri e che non vogliono prendere la disperata via del mare, ha trovato la sua naturale espressione nell’hirak. Non è dato sapere come andrà a finire. La mobilitazione è ancora in corso e la piazza va a scontrarsi oggi con il suo nemico più potente, gli apparati militari, che restano oggi le uniche istituzioni ancora in vita nel paese e che, da sempre, tengono le redini dell’opaco potere algerino.
Dopo la cancellazione delle elezioni del 4 luglio da parte del Consiglio costituzionale, il principale obiettivo del potere ancora in piedi è garantire una transizione ordinata evitando il vuoto costituzionale, mentre l’obiettivo dei manifestanti resta quello dell’incondizionato «dégage» di tutti coloro che sono stati collusi con il sistema-Bouteflika. Sta di fatto che una partita è già stata vinta: quella contro la paura e contro i fantasmi, non solo delle tragiche “primavere arabe”, che hanno trascinato nel baratro la quasi totalità dei paesi confinanti pochi anni or sono, ma soprattutto quella del trauma del terrorismo islamico. È una generazione intera a sfidare a un tempo il potere corrotto delle proprie élites e il cancro dell’islam radicale che incombe su un paese pieno di voglia di futuro. Un paese in ebollizione, cui l’Italia dovrebbe dare maggiore attenzione: oltre al ginepraio della cronaca politica interna c’è un mondo che si muove e che sarebbe meglio tenere sotto osservazione, anche per cogliere notevoli opportunità economiche e geopolitiche.
Nicola Lamri
(LucidaMente, anno XIV, n. 164, agosto 2019)