Grazie alla delicatezza narrativa di Paola Caboara Luzzatto, che in prima persona ha condiviso alcune interessanti esperienze con l’artista austriaca, si è affascinati dalle vicende di una grande e significativa figura femminile del nostro tempo: Susanne Wenger, artista e sacerdotessa. Leggendo l’illustratissimo volume (Firenze Atheneum, pp. 184, euro 15,20), si va verso la rivelazione di un mondo mistico e affascinante ma, soprattutto, scopriamo una donna straordinaria.
La rottura con le categorie e gli schemi del vecchio continente rappresentano il cuore della vita di Susanne, che infine ritrovò nella semplicità e nel contatto diretto con la natura selvaggia la sua nuova e completa identità.
Arte e spirito
Susanne Wenger era nata a Graz, in Austria, nel 1915, ed è mancata il 12 gennaio 2009 a Oshogbo, in Nigeria, dove viveva dal 1949. L’artista innalzava templi alle divinità locali e ricopriva un ruolo sacerdotale in alcuni culti yoruba. Nel 2005 l’Unesco ha incluso la zona delle Sacre Grotte da lei costruite tra i monumenti facenti parte del patrimonio mondiale dell’umanità.
Il lungo viaggio di Susanne verso l’Africa parte da un tipico disagio degli artisti e degli intellettuali cresciuti tra le due guerre: la necessità di ritrovare la propria identità, il proprio “io più profondo”, e il dissidio tra pulsioni inconsce, subconscie e misteriosamente divine, la conducono a scoprire l’universo della popolazione yoruba, dove prosegue la sua lunga esistenza come sacerdotessa, pittrice di batik e creatrice di templi dedicati alle divinità autoctone.
Susanne: la pazza che sedeva ore nella giungla
Durante tutta la sua vita, Susanne è stata aspramente criticata ed etichettata come “pazza” per aver lasciato il comodo nido europeo per un continente in cui si mangia con le mani e si convive con le scimmie. A tutti questi affronti lei non rispose ripudiando le sue origini, ma piuttosto celebrando ciò che aveva finalmente rinvenuto: «Io non ho abbandonato l’Occidente e non rifiuto la cultura europea; ma sono rimasta affascinata dalla ricchezza e dalla complessità della cultura yoruba, con cui sono venuta in contatto. Non mi sono “convertita” a nessuna religione. In Africa ho ritrovato me stessa. L’Africa mi ha restituito una ricettività che in Europa avevo perso. Ho capito quali sono le forze che governano la mia vita. Ho ritrovato la possibilità di “celebrare la vita”: questa è stata la mia conversione».
Sicuramente è stata una “conversione” non facile da accettare, soprattutto per gli altri. Susanne era quella che dipingeva statuine e costruiva tempietti nel bel mezzo della foresta, ma lei aveva trovato un modo per capire che era la scelta giusta: «Certo, potrei anche essere squilibrata. Come fa uno a sapere che non lo è? Talvolta in passato mi sono sentita in pericolo. E allora uno si deve chiedere qual è il criterio per giudicare il sano e il malato. Io me lo sono chiesto, e credo che un criterio utile talvolta sia anche il guardare fuori di sé, e vedere “a chi piaccio, e a chi non piaccio”. Le persone a cui piaccio sono quasi sempre persone limpide, integre, persone che cercano, al di là della loro vita di tutti i giorni. E questo mi rassicura».
Divenire punto di riferimento
Nel corso della sua permanenza, Susanne venne pienamente accettata dalla popolazione di Oshogbo, fino ad assumere una posizione di guida sia dal punto di vista artistico che religioso. Ma il fatto più sorprendente è che, allo stesso tempo, era rimasta profondamente europea. Probabilmente era questo il motivo per cui, col tempo, finì per ricoprire un ruolo molto particolare per alcuni tipi di visitatori: sacerdoti in cerca del sacro; artisti in cerca d’ispirazione; afro-americani alla riscoperta delle proprie radici. Tutti quelli che erano alla ricerca di qualcosa si recavano da Susanne, la quale altro non faceva che insegnare loro la pazienza e l’introspezione.
Le autorità religiose, cristiane e islamiche, non avevano particolare simpatia per questa donna occidentale, soprattutto perché l’accusavano di voler riportare la popolazione indietro nel tempo, verso il paganesimo e il politeismo. Ma nessuno di loro capiva le sue ragioni: «Per chi ha un senso profondo del divino, a qualunque religione uno appartenga, è facile capirsi. Solo per chi si ferma alla superficie, le religioni sembrano molto diverse».
La ricerca dell’identità
Sempre più spesso Susanne accoglieva anche giovani inquieti e sbandati provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti: andavano a casa sua, le parlavano confessando le loro paure, poi si incamminavano verso la giungla e passavano la notte in silenzio accanto al fiume sacro e ai templi. Il mattino seguente ripartivano: «Non so che cosa cercano: forse la voglia di vivere, o la forza di credere…». Forse, molti di quei ragazzi le ricordavano se stessa: in fondo, anche lei era approdata in quei luoghi per il senso di disagio e per troppe questioni irrisolte con la famiglia, con la società e con quel conformismo che non le permetteva di entrare in contatto diretto con la sua più profonda identità. Per gli afro-americani, invece, Susanne era una intermediaria: la tradizione africana, digerita da una mente occidentale, era più facile da comprendere. Susanne amava questi amici in cerca di identità, ma non incoraggiava il loro entusiasmo: «Vogliono trovare subito il loro dio – diceva – ma non hanno quella preparazione che gli Yoruba respirano già da bambini. Arrivano qui, e si aspettano la rivelazione, la folgorazione. I culti yoruba sono assai più razionali di come loro credono».
L’immagine: la copertina del libro di Paola Caboara Luzzatto.
Jessica Ingrami
(Lucidamente, anno V, n. 57, settembre 2010)