Nel recente romanzo “Morire il 25 aprile” (Frassinelli) di Federico Bertoni alle vicende storiche si accompagnano varie tematiche esistenziali
Un romanzo che, sotto un titolo che sembra annunciare una vicenda di ordine politico, coniuga invece felicemente la dinamica del “giallo” con la riflessione esistenziale circa il rapporto fra il singolo e la storia.
L’opera della quale stiamo parlando è Morire il 25 aprile (Frassinelli, Milano, 2017, pp. 324, € 19,00) di Federico Bertoni, docente di Teoria della Letteratura presso l’Università degli Studi di Bologna, alla sua prima pubblicazione narrativa, uscita nello scorso aprile. Lo spunto è autobiografico: il 25 aprile 2003, Vincenzo Sutti, chiamato “Farfallino” e comandante-partigiano di un distaccamento della 31a Brigata Garibaldi, si accascia improvvisamente nella casa di Bertoni per morire di lì a pochi giorni. Nel romanzo la trasfigurazione romanzesca di Sutti assume le sembianze immaginarie di Giuliano Romanini, ovvero il partigiano Julien. La voce narrante della vicenda – peraltro non coincidente con l’autore – l’ha conosciuto e venerato come un padre putativo; sennonché viene a sapere che il suo eroe avrebbe quasi provocato la morte del proprio nonno, fascista come tanti altri, ma non macchiatosi di crimini. A questo punto scatta nel narratore interno una sorta di ossessione indagatoria, che lo spinge a frugare in archivi e a intervistare i sopravvissuti che possono aver conosciuto Julien, al fine di ricostruirne la vera personalità.
L’immersione in un passato che non gli appartiene si intreccia e si alterna a momenti del presente narrativo, evocando il confronto fra i diversi modi e le mutate possibilità di partecipare alla storia. Se ai tempi di Julien era possibile per lo meno l’illusione di esserne parte attiva, il presente relega nella posizione di soggetti (o oggetti) passivi: i fatti storici (anche a causa di un’informazione che affastella e oblia) sono evanescenti e l’esistenza stenta ad ancorarsi non solo a un ideale collettivo, giusto o sbagliato che sia, ma anche a una trama di vita orientata a un significato.
Indicativo è, ad esempio, il sottocapitolo Lara, dove il sesso – consumato mentre la televisione trasmette la notizia della guerra in Afghanistan – è una prassi quasi meccanica, cerebrale, condotta con arte manualistica, estranea al coinvolgimento romantico dei partigiani Anna e Julien. Significativa in tal senso è la ricorrenza del termine «destino», che presuppone una rassegnazione all’impotenza di fronte alla storia e all’impossibilità di governare l’esistenza secondo un progetto convincente. E inoltre: è possibile una distinzione netta fra il bene e il male (p. 253)? Esiste una verità definitiva (p. 55)? E come si configura la colpa nelle tragedie della storia? È collettiva («nessuno è innocente dopo vent’anni di dittatura; nessuno si salva dopo una guerra così» p. 278) o è a carico dei potenti? Gli interrogativi rimbalzano da un personaggio all’altro del romanzo; romanzo che, da questo punto di vista, non impone una tesi definitiva e perentoria, riflettendo in tal senso le sue stesse strategie narrative.
Il termine «trama» crea infatti un sottinteso collegamento fra storia e romanzo: «[…] ci sono troppe storie senza trama» (p. 77). Il riferimento esplicito è alla difficoltà di ricostruire con chiarezza definitiva le varie stragi di un passato recente, o forse anche, paradossalmente, all’assenza di trame pilotate da una logica univoca (e in tal caso la storia sarebbe consegnata all’accidentalità e al caso). Questa problematicità coinvolge anche la stessa scrittura: non solo per la ricerca di una trama convincente (di storia e di vita), ma anche per la costruzione del suo intreccio. Non a caso, infatti, il romanzo tematizza spesso il libro nel suo farsi, non da ultimo segnalando che si tratta di una fictio.
Costruito con un impianto narrativo accorto e bilanciato, Morire il 25 aprile si articola in sei blocchi, a loro volta suddivisi in brevi sezioni, titolate spesso col nome dei personaggi intervistati o incontrati dal narratore. Le parti in corsivo scandiscono gli avvenimenti storici che ne hanno segnato l’esperienza e che si estendono dalla primavera del 2001 al maggio del 2003, tra il G8 di Genova, l’11 settembre, le guerre in Medio Oriente, le manifestazioni pacifiste e vari episodi terroristici. Il vero protagonista, su cui in sostanza si concentra il lettore, non è però il narratore in prima persona, ma Julien. Grazie alla tecnica della pluriprospettiva, la sua vicenda e la sua personalità vengono narrati da diversi punti di vista, nessuno dei quali porta a una conclusione certa, né per quanto concerne i fatti, né riguardo alla sua personalità, che resta controversa fino alla fine, anche nella coscienza del narratore-detective, come suggeriscono gli impercettibili slittamenti nel monologo interiore.
Un tentativo di narrazione consequenziale è affidato a una sorta di specchio del libro, ossia alla storia del comandante partigiano, affrescata in una miniera di rame abbandonata, in cui il narratore si cala quasi alla fine delle sue indagini. Ma anche il dipinto non fa che aggiungere materia leggendaria all’agognata ricerca di verità. Come aveva dichiarato in precedenza il narratore, «Temo che mi manchi completamente il distacco obiettivo dello studioso: mi faccio trascinare dal lato romanzesco della storia» (p. 162). Scritto molto bene, con un lessico molto curato, il romanzo di Bertoni è di piacevole lettura e mantiene una tensione dinamica, amalgamando abilmente azione, riflessione ed evocazione di ambienti e atmosfere. Concludendosi con una serie di atti mancati, sia da parte di Julien, sia del narratore – che finiscono quindi in una specie di reciproco rispecchiamento – il romanzo resta in un certo senso un’opera aperta, demandando al lettore la sua possibile continuazione: sul piano dei fatti e della riflessione esistenziale.
Margherita Versari
(LucidaMente, anno XII, n. 139, luglio 2017)