Lo studioso felsineo Federico Fanti ha ricevuto dalla celebre istituzione statunitense un notevole riconoscimento internazionale in ambito scientifico. Nell’intervista che abbiamo realizzato per i nostri lettori, il ricercatore svela curiosità del proprio lavoro e rivolge un incoraggiamento alle generazioni future: la cultura italiana non è seconda a nessuno!
Geologo e paleontologo, 36 anni, di Bologna; studioso, per lavoro e passione, degli ecosistemi del passato. Ecco l’identikit del ricercatore del Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali dell’Università di Bologna premiato di recente dalla National Geographic Society come emerging explorer. Federico Fanti, unico italiano tra i 14 candidati, ha vinto l’ambìto riconoscimento che la nota istituzione scientifica dedica ogni anno «a scienziati, divulgatori e innovatori con capacità e talento unici e straordinari».
Fanti, che da oltre dieci anni conduce campagne di scavo in giro per il mondo, è anche ricercatore presso il Museo geologico “Giovanni Capellini” dell’ateneo bolognese. Il suo campo di indagine verte sulla questione di come i mutamenti climatici ed ecologici abbiano influenzato l’evoluzione tramite i fenomeni di adattamento o estinzione. Tra le sue scoperte, la più eclatante è forse quella avvenuta verso la fine del 2014 durante una spedizione in Tunisia, precisamente nella città meridionale di Tataouine: lì Fanti, assieme a una squadra di studiosi, ha rinvenuto lo scheletro di un coccodrillo marino gigante e insolito, una specie mai vista prima, “battezzato” Machimosaurus rex. Gli emerging explorers – in italiano, “esploratori emergenti” – saranno celebrati ufficialmente nel mese di giugno a Washington in occasione del National Geographic explorers Festival. Si tratta di biologi, ambientalisti, geografi, insegnanti, fotografi e addirittura medici dentisti, tutti accomunati da un forte spirito divulgativo e di ricerca scientifica.
Provenienti da Stati Uniti, Canada, Angola, Chad, Mozambico, Panama, Indonesia e, naturalmente, Italia per quanto riguarda il “nostro” Fanti, gli emerging explorers 2017 riceveranno dalla National Geographic Society un contributo di 10.000 dollari per i loro progetti di ricerca. Per festeggiare l’orgoglio tutto italiano di questo premio internazionale abbiamo intervistato il giovane scienziato bolognese, che ci ha rivelato diversi aspetti del suo lavoro, curiosità e retroscena dei suoi viaggi e ha parlato delle problematiche della vita di un ricercatore nel nostro Paese, facendo un appello alle generazioni future.
Il riconoscimento ricevuto dalla National geographic rappresenta un traguardo che onora l’impegno e sprona a lavorare con ancora più motivazione…«Sono il primo a essere orgoglioso di questo premio. Essere scelto come “esploratore” dalla National Geographic non è certo una cosa da tutti i giorni. Ho passato ormai quattordici anni a viaggiare dall’Alaska all’Australia per portare avanti la mia ricerca, il tutto tenendo sempre Bologna come punto di riferimento».
Dove si trovava quando ha ricevuto la notizia? Prime reazioni a caldo?«Ero in ufficio; la comunicazione è arrivata del tutto inaspettata e ho dovuto tenere segreta la notizia per oltre un mese, perché l’annuncio pubblico era fissato per il mese di maggio, ma la Society si è messa in contatto con i vincitori qualche settimana prima. Solo la famiglia ha avuto l’anteprima, ma abbiamo aspettato per i festeggiamenti».
Il suo mestiere – parlo da profana del settore – sembra stimolante e anche ricco di sorprese. È così?«È certamente un tipo di lavoro che si fa per passione. Implica stare parecchio tempo lontano da casa, adattarsi, essere flessibile in luoghi con culture molto diverse. Dal mio punto di vista non lascia mai senza sorprese (non tutte positive, ovviamente). Scoprire qualcosa di nuovo o, in generale, svolgere una missione di successo sul terreno non è qualcosa di scontato. Per ogni scoperta importante ci sono mesi in cui si cerca senza trovare nulla o si rimane bloccati per motivi logistici, meteorologici, politici, eccetera».
Come nasce un paleontologo?«Nasce, nel mio caso, da una passione di bambino trasformata in anni di studio e pratica sul terreno. Come in tutte le professioni, anche qui ci vogliono dedizione e un tocco di fortuna».
Purtroppo in Italia i ricercatori restano nell’ombra e spesso non se ne conoscono il valore e l’impegno quotidiano. Lei lo fa per caso o per scelta? Con quale spirito ha intrapreso, e persegue, questa strada?«Sono ricercatore assolutamente per scelta. Chi fa il mio lavoro deve avere come obiettivo primo la professionalità, non la ribalta. Divulgare diventa però essenziale, anche perché le scoperte non comunicabili, di fatto, quasi non “esistono”».
Secondo lei, quali doti bisogna avere per svolgere questa attività?«Di sicuro sappiamo molto meno di quanto vorremmo e occorre continuare a studiare. Servono poi curiosità, pazienza e capacità di confrontarsi con altri scienziati per costruire qualcosa di solido e scientificamente valido, che vada oltre le ricerche del singolo individuo».
Pregi e difetti, dal suo punto di vista, della vita del ricercatore.«Come in qualunque altro settore, i risultati non sono sempre all’altezza delle aspettative, così come il salario. La ricerca però si riesce a fare ed è un vero test per la determinazione di una persona».
Ha mai pensato di lasciare l’Italia? Ritiene che nel nostro Paese trovino ancora spazio lo studio, la cultura e il sapere? A volte non sembra…«Il mio obiettivo è di poter continuare a fare il mio lavoro al massimo delle potenzialità. Se questo vuol dire Bologna, bene. Se vuol dire partire, altrettanto bene. Di sicuro la situazione nazionale non è semplice, ma non è scappando – o lasciando scappare – che si risolve il problema. Le prossime generazioni devono capire che la nostra cultura e il nostro sapere non sono secondi a nessuno».
A quale luogo, tra quelli visitati, è particolarmente legato e perché?«Ho viaggiato molto, attraverso tutto il Nord America, l’Europa, l’Africa, l’Asia, l’Australia. Senza dubbio ho un legame particolare con il Canada, un Paese che mi ha dato molto e che ogni anno mi vede impegnato con ricerche sul suo terreno».
A quando risale l’ultimo scavo?«Allo scorso settembre, nel deserto del Gobi, in Mongolia».
In questi anni qual è stata la scoperta più entusiasmante per lei?«Credo il nido che ho rinvenuto proprio in Mongolia nel 2007, un tipo di reperto davvero difficile da trovare. È di un oviraptoride (Nemegtomaia barsboldi), un dinosauro piumato con becco simile a quello di un pappagallo, molto comune nei sedimenti del Gobi. Il fossile è un nido di circa una trentina di uova con sopra un esemplare adulto ancora in posa di cova, probabilmente rimasto vittima di una tempesta di sabbia. L’ho trovato mentre misuravo sezioni geologiche in una località che si chiama Nemegt, molto ricca di vertebrati fossili».
Ci racconta qualche aneddoto divertente o curioso dei suoi viaggi?«Quasi tutti gli episodi degni di nota sono legati a incontri con orsi; ma anche spiegare alle dogane aeroportuali perché abbiamo con noi delle ossa non è facile. O, ancora, vi sono le alluvioni e le grandinate che distruggono gli accampamenti o strani personaggi in giro per il mondo…».
Mi scusi: incontri con orsi? Strani personaggi? Ce ne parli!«Gli orsi sono molto comuni nel Nord America, specialmente tra Canada e Alaska. Spesso hanno attraversato il nostro campo base o abbiamo avuto contatti ravvicinati con loro durante il giorno, dovendo anche abbandonare per qualche ora il sito di scavo. Sono i padroni di casa, bisogna prestare attenzione e rispettarli nel loro ambiente. Le persone, invece, sono molto più “varie”. Ho visitato Stati in tutto il globo e, ovviamente, le realtà culturali sono diverse. Si incontrano dal commerciante di fossili allo scettico che non crede ai dinosauri e alle evoluzioni, fino al proprietario terriero che non ama i visitatori nella sua proprietà. Ma vi sono anche molti curiosi, appassionati e volontari che hanno dedicato tempo e risorse per supportare la nostra ricerca e per comunicare al pubblico il nostro lavoro».
Quali aspetti di esso le piacciono maggiormente e quali meno?«L’esplorazione di posti nuovi è certamente affascinante, ma richiede molta organizzazione e soprattutto molta burocrazia».
La sua popolarità nei corridoi universitari sarà alle stelle…«Spero che questo picco porti a nuovi iscritti: mi piacerebbe che la storia mediatica si trasformasse da parte degli studenti in interesse scientifico ».
A giugno avverrà la cerimonia di consegna del premio a Washington: pronto per la partenza? Cosa porterà con sé da Bologna?«Ho ancora molte cose da sistemare, saranno settimane piene di impegni e di incontri. Da Bologna mi porterò storie da condividere, sperando di incuriosire qualcuno sul mio mestiere e sulle domande cui cerco da molto tempo di dare una risposta».
Le immagini: il ricercatore bolognese Federico Fanti; il logo dell’Alma Mater Studiorum, l’Ateneo di Bologna; il logo di National Geographic; la squadra di paleontologi, tra i quali Fanti, con il fossile del coccodrillo marino Machimosaurus rex, rinvenuto nel 2014 in Tunisia (foto dell’Huffington Post).
Maria Daniela Zavaroni
(LucidaMente, anno XII, n. 138, giugno 2017)