Nel suo nuovo romanzo, “Bologna non c’è più” (Fratelli Frilli Editori), il giallista bolognese Massimo Fagnoni delinea uno spietato ritratto dell’Italia odierna
Può un noir descrivere perfettamente, e amaramente, la crisi economica, ma anche politica, sociale, morale, che da tempo attraversa il nostro Paese? La risposta è sì, se vi apprestate a leggere il nuovo romanzo del narratore bolognese doc Massimo Fagnoni. Il suo titolo è Bologna non c’è più. Un’altra indagine di Galeazzo Trebbi (Fratelli Frilli Editori, pp. 224, € 11,90).
D’altra parte, nelle nostre recensioni ai due precedenti libri di Fagnoni, avevamo già evidenziato la sua acuta sensibilità critica verso le aberrazioni del presente. Ne Il silenzio della Bassa. Un’indagine di Galeazzo Trebbi (da noi recensito in L’assassino? La tv spazzatura!), aveva denunciato la deriva dei media; in Vuoti a perdere (vedi Una Bologna borghese e sottoproletaria nel nuovo giallo di Massimo Fagnoni), aveva messo in luce i disvalori dell’odierna gioventù. Ora, in Bologna non c’è più, parla dello sfacelo sociale e morale che in Italia si accompagna all’attuale grave crisi economica, dalla quale non è chiaro se stiamo uscendo e, se pur fosse così, quanti anni saranno necessari per tornare a una situazione decorosa. Il romanzo è ambientato nei primi mesi del 2013. Tanto per fare mente locale, ci troviamo in pieno tracollo economico e nel caos più totale: fine del governo “tecnico” di Mario Monti, elezioni politiche dalle quali non esce un vincitore, mancanza di un governo e persino del papa…
Le difficoltà economiche recano con sé precariato e quindi sfruttamento. I personaggi del libro di Fagnoni sono operatori sociosanitari di centri per psicotici violenti, professoresse trentenni destinate a essere precarie a vita, disgraziati schiavi di call center, laureate in giurisprudenza tiranneggiate da sadiche datrici di lavoro, donne assistenti di odontoiatri in fregola sessuale, ex poliziotti frustrati e separati in casa, operai senza più alcuna identificazione e orgoglio sociale. Ritratti sociologici perfetti. Tutti con ben altre aspirazioni nella vita, tutti soffocati dal grigiore e dalle ristrettezze quotidiane, avvolti da «una rabbia sorda, forte e collettiva, una stanchezza esistenziale definitiva, come una febbre che non ti lascia mai, fiaccando le ore, a volte anche i minuti della loro esistenza e una miseria ogni giorno più sfacciata, più incalzante, senza prospettive, senza un governo, senza una morale se non quella dell’homo homini lupus».
In tale contesto, a Bologna, si forma una banda di improbabili terroristi rossi, che agiranno con le stesse armi usate dai partigiani nel corso della Seconda guerra mondiale. L’investigatore Galeazzo Trebbi, che si sta occupando di Wolfango Lazzarini, “solito” tossicodipendente all’ultimo stadio di agiata famiglia, finito, per di più, nelle morse di una banda di spacciatori nordafricani, si trova, quasi per caso, sulle tracce di queste “nuove Brigate rosse”. Ovviamente, come nei migliori gialli, non tutto è come sembra. Pertanto, consigliamo al lettore di non perdersi le sorprese e i molteplici colpi di scena finali. Tuttavia, lo esortiamo caldamente, oltre che a seguire l’intreccio narrativo del romanzo, a leggervi l’amara denuncia sociale, argomento scomodo e, quindi, ben poco trattato dai media, tesi a narcotizzare le coscienze dei cittadini (o quel che ne rimane): «Più la crisi addenta e sbrana il mercato, più le strategie di vendita si fanno aggressive, devono penetrare le difese deboli del consumatore esausto, non dargli il tempo di pensare. Tempo, ancora tempo, la regola è muoversi più veloci della luce, spingere truppe di giovani interinali, appiattiti dalle loro ansie […]. La sua azienda è senza scrupoli, utilizza disgraziati che per un tozzo di pane si prestano a imbrogliare altri sventurati».
Sconvolgente, nella sua lucidità angosciosa e straziante, è la descrizione dei lavoratori dei call center: «Giovani come lui chiacchierano del loro presente privo di qualsiasi consistenza, di progetti futuri, tutti incerti, tutti sfumati, senza una vera passione, senza una concreta speranza. Sono i suoi colleghi, dai diciannove ai trentacinque anni, con qualche vero adulto dai quaranta ai cinquanta, solitamente disoccupati cronici o imprenditori rovinati. Fra i suoi coetanei quasi tutti sono studenti universitari o neolaureati, aspiranti attori, aspiranti scrittori, aspiranti lavoratori, che trascorrono il loro tempo al telefono facendosi insultare e continuando con pacata rassegnazione a consumare tempo».
Allo spietato sguardo di Fagnoni non sfugge nulla. La scuola, ridotta a parcheggio di ragazzotti maleducati e nullafacenti, italiani e stranieri («Anna non ama i nordafricani, non le piacciono i loro sguardi, hanno qualcosa di predatorio e violento»). La concorrenza sleale degli immigrati: «Parrucchieri italiani che chiudono, ristoranti bolognesi che chiudono, negozi di abbigliamento che chiudono, mentre i cinesi avanzano, con i loro sorrisi melliflui, i loro quartieri conquistati strada per strada, in contanti, come in una guerriglia di posizione silenziosa e spietata». Lo scandalo delle sale giochi e scommesse, che succhiano gli ultimi soldi rimasti in tasca ai poveracci: «All’interno c’è uno sparuto gruppo di disperati senza nulla da perdere ormai se non il loro tempo, libero da lavori perduti dietro a un qualsiasi fantasma di cavallo, o a scommesse impossibili da vincere. I giocatori provengono da tutti i mondi immaginabili, extracomunitari fuggiti dalla loro terra dopo avere bruciato esigui patrimoni familiari e arrivati qui continuano imperterriti a giocare, italiani sgualciti e sbiaditi, nei loro abiti logori, nei gesti contratti e rallentati come tossici all’ultimo stadio. Il giocatore non ha più nulla di umano, ma solo un obiettivo, racimolare il grano per la prossima giocata, quella che lo riporterà in superficie». E quello dei negozi “compro oro”: «Sopra una scritta, gioielleria, e più in basso, come il sottotitolo di un brutto romanzo, vendo e compro oro usato […] quello delle fedi di matrimoni naufragati, quello della prima comunione di figli ormai adulti, quello della medaglia al valore del nonno defunto».
Come sempre, Bologna e il suo paesaggio, naturale e umano, hanno un ruolo molto importante nei libri di Fagnoni: il «freddo della pianura padana, un freddo fradicio, inquinato, puzzolente e pervasivo». Case popolari Acer e circoli per anziani, vie del centro e vie di periferie semisconosciute. Magistrale è la descrizione di via Stalingrado, una direttrice dove «prima e dopo gli svincoli ci sono molteplici opzioni, quasi tutte oltre la linea di confine, quella linea sottile che prima ti contiene nei campi della cosiddetta normalità e subito dopo ti catapulta in un altro mondo» (pp. 35-36, da leggere con cura per intero).
Nel corso del romanzo lo scrittore sa ben rappresentare anche l’abile fabbrica del consenso costruita nel capoluogo emiliano dal Pci-Pds-Ds-Pd, articolata in circoli, centri culturali, bocciofile, centri sociali, attività varie, Coop e coop… Ma ne ha anche per Pdl, Lega Nord e, meno, per il M5s. In Fagnoni non è presente alcuna pietà per gli italiani, visto che i brigatisti fanno pronunciare al loro rapito, un opinionista tv della Rai, potente quanto corrotto, le seguenti frasi: «Chi ci governa vi sta prendendo in giro, da sempre, e la cosa più grave è che lo sapete, lo avete sempre saputo e vi sta bene, loro vi permettono di evadere, inquinare, uccidere, rubare, loro sono la giusta classe politica utile per soddisfare le vostre esigenze». E «Trebbi si chiede cosa ci sia di tanto mediocre nella testa degli italiani per renderli così superficiali, grevi, ignoranti. L’unica vera cultura del paese, ancora dominante, sembra quella del calcio e anche lì le porcherie si sprecano». Un noir triste, doloroso, caratterizzato da un acre scetticismo di fondo.
Le immagini: la copertina del libro, piazza Maggiore e lo stesso Massimo Fagnoni.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XI, n. 121, gennaio 2016)