Direttamente dagli “studios” del parlamento vicentino, con la superba regia di Umberto Bossi, il nuovo capolavoro secessionista, un bestseller assoluto che non conosce il trascorrere del tempo
Era il 1999 e il regista Frank Darabont completava Il miglio verde, notissimo film tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King. Dopo dodici anni una sceneggiatura tutta padana cerca di ricalcarne il successo, consegnando all’umanità una storia tanto incredibile quanto drammaticamente reale.
La regia, affidata all’ormai consolidato Umberto Bossi, riparte dal tratto fondamentale dell’opera precedente, pur prendendo le doverose distanze imposte dal caso. Nell’idiozia dilagante ritorna quell’ultimo miglio da percorrere prima della morte per un popolo (quello padano), ingiusta vittima dell’oppressione italiana, condannato alla sedia elettrica da Roma ladrona per “onesta” insubordinazione – da sottolineare allo sguardo attento dello spettatore il sorriso beffardo del secondino, probabilmente terrone mafioso sanguisuga disoccupato comunista... Dai prati di Pontida alla fiera vicentina quel filo conduttore che mai si spezza e che anzi si ricollega e si alimenta man mano che scorrono le scene. Poi il flashback reguzzoniano sull’indipendenza americana e la lotta contro re Giorgio (velato colpetto a Napolitano…), parabola di una Padania pronta al grande salto verso l’infinito e oltre.
I film sono una fedele rappresentazione della realtà, dal percettibile valore didattico – direbbe un ipotetico cinefilo. E, allora, ecco pronta la ricetta: la secessione, abbaglio agognato da trent’anni, per rinascere e ripartire, per superare una crisi che colpisce solo i lumbard, vittime sacrificali di una nazione corrotta prostituitasi agli accattoni meridionali. «La Padania vincerà. Lo stato italiano ha perso la partita» il grido di guerra pronunciato con voce perennemente roca da quell’uomo in camicia verde, che mira esplicitamente a una rinnovata Triplice Alleanza con Germania e Austria.
Per citare Il miglio verde, quello vero, questi leghisti sono «come schegge di vetro conficcate nella testa». È impensabile che dopo 150 anni d’Italia ancora non siamo riusciti a fare gli italiani, in barba al sogno di Massimo d’Azeglio. Soppiantare un ispiratore della nazione con quello di un movimento – Gianfranco Miglio – risulta essere davvero una scelta non azzeccata. Si potrebbe, almeno per una volta, rifiutare quell’invenzione moderna che vuole contrapposto al Nord lavoratore un Sud mangione e beone. Sentirsi un po’ più fratelli e meno caini per riuscire a fare un notevole balzo verso la costruzione di un Paese migliore. Estirpando come erba cattiva estremismi retorici e di cattivo gusto, per questa volta, forse, la follia di un solo pazzo potrebbe non condizionare e ridimensionare il sogno di un’Italia intera.
Gianvito Piscitiello
(LM MAGAZINE n. 21, 15 dicembre 2011, supplemento a LucidaMente, anno VI, n. 72, dicembre 2011)
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