Nel 2006 gli Istituti di cultura cinese erano considerati dagli stessi funzionari di partito «fatiscenti e poco attraenti». Oggi minacciano la libertà accademica in Occidente
«Il governo cinese ha appena firmato un accordo con Victor Orban per costruire un campus della sua università nel centro di Budapest [e] sta costruendo la nuova biblioteca nazionale a San Salvador, proprio nel cuore di El Salvador, che per la maggior parte dell’era moderna era stato uno stato fantoccio degli Stati Uniti. La Cina sta giocando una partita globale e questo è soft power». Con queste parole Jeremy Adelman – docente di Storia all’Università di Princeton, intervistato da Alberto Flores D’Arcais su L’Espresso dello scorso 5 settembre – sintetizza la strategia con cui il paese di Xi Jinping sta cercando di presentarsi agli occhi del mondo.
Una strategia che, come per le potenze occidentali, punta molto sulla diffusione della cultura. È in questo contesto che, come mostra il documentario del 2017 In the name of Confucius, gli «Istituti di cultura cinese» – intitolati al filosofo orientale – svolgono un ruolo chiave. Sono quasi 550 gli Istituti Confucio nel mondo, diffusi in 147 paesi. Solo in Europa se ne contano 182, di cui 12 in Italia, ospitati nelle principali università. Ogni sede distaccata è sotto la supervisione diretta di un ufficio del Ministero dell’Istruzione della Repubblica popolare, il Clec (Centro per l’educazione e la cooperazione linguistica – Center for Language Education and Cooperation), che dal 2020 ha sostituito l’Hanban (Ufficio nazionale per l’insegnamento del cinese come lingua straniera). Formalmente, si tratta di un’istituzione non governativa e senza scopo di lucro. Secondo lo statuto, i centri di cultura cinese perseguono l’obiettivo di «aumentare la comprensione della lingua e della cultura cinese», allo scopo di «costruire un mondo armonioso». In realtà, come denuncia Antonio Tripodi – già componente del Senato accademico dell’Università Ca’ Foscari Venezia – «l’idea della “società armoniosa” nella Cina contemporanea, è un eufemismo per indicare censura e controllo».
Di conseguenza, nelle università che ospitano gli Istituti Confucio, «esiste ed è palpabile una potente autocensura su tutti gli argomenti che riguardano il potere cinese. Questa autocensura è a tutti i livelli, anche fra il personale amministrativo». Insomma, conclude Tripodi, «è evidente che gli IC sono una proiezione della politica cinese del “soft power”». Il contributo degli Istituti di cultura, di qualsiasi paese, alla percezione del paese stesso nel resto del mondo è evidente. Ma, nel caso di quelli del Dragone, c’è una differenza significativa: come come ha sottolineato il sinologo Maurizio Scarpari sul Corriere della Sera, gli IC si distinguono dal British Council o dal Goethe Institut «essendo il frutto di accordi accademici e incardinandosi all’interno delle università ospitanti».
Questo significa che alle accademie ospitanti vengono elargiti finanziamenti alla ricerca e benefit che, di fatto, ne limitano «l’azione e la libertà di pensiero». Al punto che, secondo Tripodi, finché sussisteranno questi finanziamenti gli atenei si troveranno in una «posizione di subalternità». In Italia, nonostante il dibattito sul tema della libertà accademica, la questione della presenza cinese nelle università non sembra essere percepita come una minaccia alla sicurezza. Al contrario, negli Stati uniti, l’argomento assume una rilevanza ben diversa. Secondo un ex membro della Commissione Cina del Congresso Usa, il motivo principale per cui bisognerebbe preoccuparsi degli Istituti Confucio non è tanto il fatto che trasmettano «la propaganda di un partito autoritario fondamentalmente ostile al discorso libero e alla revisione critica della narrativa governativa», quanto piuttosto che agiscano «come un condotto per raccogliere informazioni e generare ulteriore influenza all’interno dell’istituzione che li ospita». Non è un caso che ben 24 atenei statunitensi abbiano sospeso il proprio accordo con l’IC tra 2018 e 2019.
Sia i sospetti di spionaggio sia quelli di censura culturale sono stati confermati da numerosi casi di cronaca, avvenuti anche in Europa. Secondo uno studio dell’House Permanent Select Committee on Intelligence, «il programma dell’Istituto Confucio […] crea una testa di ponte nell’amministrazione universitaria attraverso la quale l’influenza del partito [comunista] può espandersi». Prosegue il paper: «L’australiano John Fitzgerald, un acuto osservatore delle operazioni di influenza del partito, ha scritto che accettare un Istituto Confucio segnalerebbe che un’università sia “pronta a fare un’eccezione per la Cina su questioni di libertà accademica, programmi di insegnamento e integrità della ricerca”». Comunque, concede il report del Comitato sull’Intelligence, non in tutti i casi il rapporto con gli Istituti Confucio si è rivelato problematico. Tutto dipende da quanto l’università riesce a resistere alle lusinghe del Dragone.
E poi c’è la questione dei finanziamenti. Il Chinese State Council Budget Tracker aveva quantificato in 66 miliardi di dollari la dotazione finanziaria del Ministero dell’Educazione per il 2019. Quella spesa dal 2008 al 2016 per i Centri di cultura cinese sparsi per il mondo consisteva, secondo il Permanent Subcommittee on Investigations del Senato americano, in circa 2 miliardi di dollari. I report annuali dell’Hanban segnalavano una «crescita costante della spesa globale per gli IC», arrivando nel 2016 alla cifra massima di 314 milioni di dollari. Una realtà ben diversa rispetto al passato, se si pensa che un cablogramma confidenziale del 2006 proveniente dall’ambasciata Usa a Pechino (reso pubblico nel 2011 da WikiLeaks) riportava che la direttrice di allora si era «lamentata che Hanban è seriamente sottofinanziato: con uno staff di 50 persone e un budget di soli 25 milioni di dollari, non ha né il tempo né il denaro per soddisfare la domanda di Istituti Confucio».
E ancora che «gli Istituti Confucio stanno incontrando problemi di finanziamento, in particolare in Africa, […] sostenendo che il Ministero dell’Educazione non ha fornito fondi operativi adeguati. Alcuni funzionari hanno persino scritto rapporti interni criticando gli Istituti Confucio di tutto il mondo per essere “fatiscenti e poco attraenti”». Evidentemente, oggi la situazione è cambiata. E di molto. Una cosa è certa: in meno di quindici anni il soft power della Cina ha fatto progressi enormi.
Edoardo Anziano
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 190, ottobre 2021)