Sta per calare il sipario sulla “corsa rosa”. Potrebbe essere l’occasione per ricordare un’epoca del ciclismo diversa, perlomeno nell’impatto socioculturale e nei protagonisti. Gli scritti di Brera, Buzzati e Campanile
Alzi la mano chi, al termine del Giro d’Italia, non si lascerà andare a dubbi. Non su come quel corridore avrebbe dovuto affrontare le tappe a cronometro, o quella squadra organizzarsi meglio negli arrivi in salita. Parliamo di dubbi più profondi, perché ormai nel ciclismo siamo abituati a vedere l’ombra del doping su ogni episodio. L’adrenalinica incertezza provata davanti al finale di una corsa si tramuta spesso in amaro scetticismo. Affiorano le domande sul senso di una pratica agonistica così poco pulita. Sulle fragili ragioni che restano per continuare a seguirla.
Oggi la credibilità etica del ciclismo è ridotta ai minimi termini. Anche per questo motivo si tende a cercare nel passato di questo sport una dimensione di presunta “purezza”, una serie di figure e momenti che ci sembrano migliori, forse per il solo fatto di essere trascorsi. Per quanto ingenuo, un simile atteggiamento risulta comprensibile. Chi rinuncerebbe alla suggestione di episodi e protagonisti entrati nell’immaginario collettivo, figli di un’epoca in cui andare in bici acquisiva un significato ben preciso? Nell’Italia contadina della prima metà del Novecento, il Giro rappresentava uno dei più importanti fenomeni di costume. Per dirla con Gianni Brera, la bicicletta aveva «sveltito il ritmo di un popolo» aiutandolo a uscire dall’immobilismo di secoli. Era la risposta dei poveri al cavallo, il mezzo per vedere il mondo oltre i propri campi e cogliere occasioni prima impensabili. Nulla di strano, quindi, se l’uomo comune trepidava per gli atleti delle due ruote, complice un’identica estrazione sociale. Il faticoso affrancarsi dalla miseria con il successo agonistico era prerogativa di pochi, che andavano celebrati da eroi.
Questo carattere di “epopea rustica” non mancò di affascinare gli ambienti colti, e spesso la carta stampata affidava a scrittori di grido il compito di seguire il Giro. La rivalità Bartali-Coppi nell’edizione del 1949 fu trattata da Dino Buzzati in una serie di articoli per il Corriere della sera, poi confluiti nel successivo Dino Buzzati al Giro d’Italia (Mondadori). Notevole, tra gli altri, il resoconto della tappa Cuneo-Pinerolo del 10 giugno, quando Coppi percorse 192 chilometri da solo e vinse con enorme distacco. I valichi delle Alpi Marittime fanno da sfondo a un duello dai toni epici. Lo sconfitto Bartali è «un uomo solo nella selvaggia gola, in disperata lotta contro gli anni», e soffre di un destino più grande di lui, al pari dell’eroe omerico Ettore. La superiorità dell’avversario è espressa dalla descrizione della sua prestanza atletica, che poco ha di umano: «Si vedevano i muscoli, sotto la pelle, simili a serpenti straordinariamente giovani». In ogni caso la simpatia sembra andare al campione in difficoltà, il cui tramonto agonistico dopo anni di successi «ci ricorda intensamente la nostra comune sorte».
Una particolare ironia contraddistingue invece Battista al Giro d’Italia. Intermezzo giornalistico (Treves, poi ristampato da La vita felice e Otto/Novecento) di Achille Campanile, frutto dell’esperienza che lo scrittore romano maturò come inviato alla corsa del 1932 per conto della Gazzetta del Popolo. Alla diffusa celebrazione degli “assi” fa qui posto uno sguardo irriverente, che mette in ridicolo le tradizioni e le gerarchie sportive. Per una volta i Girardengo e i Binda sono ai margini, mentre salgono alla ribalta personaggi “donchisciotteschi”, con improbabili soprannomi e scarse doti atletiche. Fanno parte della squadra dei «Sempre in coda» e sono accompagnati da Battista, l’anziano domestico dell’autore. È un susseguirsi di fughe interrotte dopo alcuni metri – «per timidezza», è chiaro –, forature accolte come buon auspicio e strenue battaglie per l’ultima posizione. Un testo certamente insolito nel panorama di allora, ma che incontrò largo consenso. Forse proprio perché gli effetti comici ammorbidiscono i contorni di uno sport che impone una fatica fisica estrema, inarrivabile per i più.
Ricettacolo di simboli e, insieme, gustosa divagazione di penna. Un binomio che ha fatto la fortuna di quel ciclismo che ci ostiniamo, per forza di circostanze, a guardare con nostalgia. Ma è in agguato il rischio di farsi troppo laudatores temporis acti, magari stregati da qualche canzone o florilegio letterario ben più piacevoli delle inchieste sul doping. Finché siamo in tempo, torniamo coi piedi per terra. Lo sapete, vero, che anche Coppi prendeva la “bomba”? Era simpamina, il miglior ritrovato all’epoca. A un giornalista confessò che gli serviva «quasi sempre». Ma se veniva chiesto, prima della gara, cosa ci fosse nella piccola borraccia che teneva in tasca, il buon Fausto sapeva di dover rispondere: «Caffè». Magari, in quell’istante, ci sarebbe sembrato solo un piemontese di poche parole.
Le immagini: le copertine dei libri di Dino Buzzati e di Achille Campanile.
Giulio Azzoguidi
(LucidaMente, anno VIII, n. 89, maggio 2013)
Bellissimo articolo Giulio… io che di ciclismo non ne capisco nulla… mi sono quasi appassionata!
Buon inizio e buona fortuna con la penna-tastiera… 🙂
Bellissimo articolo, estremamente coinvolgente e ben scritto!
Complimenti all’autore e al sito, davvero interessante.
Gentile lettrice, la ringrazio.
Ottimo articolo, concordo con le riflessioni fatte. Complimenti all’autore, oggi la buona scrittura è merce rara, e va valorizzata!
Gentile lettore, grazie per l’attenzione.