Due loro romanzi rivolgono lo sguardo al periodo del secondo conflitto mondiale, un tempo da cui affiorano verità e colpe intime e collettive
Negli ultimi mesi la scena editoriale ha proposto due opere che sembrano avere una finalità comune: riportare in superficie, per mezzo di uno scavo impressionante quanto convulso, il grigiore sedimentatosi nelle coscienze intorpidite dal benessere materiale dei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. Le due opere, Heimat (Einaudi, pp. 288, € 19,00) di Nora Krug e Il peso dei segreti (Feltrinelli, pp. 394, € 19,00) di Aki Shimazaki, sono molto diverse tra loro quanto a genere e forme espressive.
La prima è un graphic novel, un romanzo illustrato che promette leggerezza nel trattare un tema impegnativo, mancando però tale obiettivo iniziale. La Krug si lascia prendere la mano dallo scavo introspettivo, combinando la ricerca della genesi familiare con il tentativo di epurare la genia germanica e il milieu familiare da un nazionalsocialismo putrido e tentacolare. La prospettiva critica con cui il passato viene attualizzato, e declinato per aborrire i rigurgiti delle frange più estremiste, è di impatto: una tedesca naturalizzata americana volge lo sguardo alla Germania d’antan attraverso il prisma del racconto familiare, scandagliando colpe individuali e collettive. Metabolizzando l’angoscia che prorompe dallo scavo introspettivo, Krug esplicita l’apertura dei “tedeschi fuori patria” verso il passato, spostando gli accenti dal tema della Vergangenheitsbewӓltigung (“elaborazione della colpa”) – non rinnegarsi al proprio passato – a quello della partecipazione individuale. Krug reitera inconsapevolmente un modulo narrativo coniato dallo sperimentalista più in voga nella Germania postbellica: lo scrittore e premio Nobel Günter Grass (Lubecca, 1927-2015).
Quest’ultimo aveva declinato in forme morbose e anticonvenzionali il tema della Schande, ovvero della “vergogna collettiva”. Con un mea culpa nazionale e la confessione, data in pasto alla stampa, della propria partecipazione attiva nelle fila delle SS (Sbucciando la cipolla), Grass denunciava un fatto inquietante: il perbenismo della provincia incarnato in volti, espressioni e figure familiari di tedeschi imbevuti di conservatorismo e belligeranza, ha dato la stura alla diffusione di quella ideologia putrida di morte e distruzione.
Come in ogni opera di scavo che si rispetti, l’ammissione è un atto sofferto: Krug prova a sottrarsi al dato inquietante, cimentandosi in un tortuoso cammino pregno di deviazioni, di aut-aut e ripensamenti. Il punto di approdo è, tuttavia, la confessione: tutti siamo colpevoli. Prescindendo dal ruolo più o meno attivo esercitato nella persecuzione e nel genocidio, la colpevolezza ha un radicato ben più pervasivo: si è colpevoli anche quando si storce lo sguardo e si dissimula, attraverso un qualunquismo becero e martellante, l’oggettività di un dato che non ammette interpretazioni. Krug decide di perseguire tale intervento corrosivo di scavo nella coscienza personale, conscia del fatto che, “sbucciando la cipolla” – per riprendere la metafora dell’introspezione nonché il titolo succitato del celebre romanzo di Grass – si finirà per dissotterrare ciò che i padri hanno provato a dissimulare. Nora Krug evidenzia una maturità critica non comune nell’affrontare l’onta dei padri, né teme di essere trascinata nel vicolo buio dello stereotipo e del razzismo di ritorno.
Nel suo Paese di adozione, la tipizzazione del tedesco resta ancorata, nel nostro tempo, ai cliché dell’uomo autoritario, con un’autorità che gli deriva non da una veemenza innata, bensì da un’aura oltraggiosa acquisita in seguito alle vicende nazionalsocialiste. A dispetto dei pericoli connessi alla rivelazione, Krug si risolve a percorrere fino in fondo il sentiero della narrazione collettiva delle colpe, interrogandosi sui motivi, visitando i luoghi e gli emblemi della Schande. Nel compiere questo passo, l’inquietudine iniziale si tramuta in un timore reverenziale per le vittime e i carnefici.
Ciascuno ha combattuto una propria personale battaglia, prescindendo dai ruoli e dal livello di mortificazione inferto alla carne, alla società coeva e alle generazioni prossime a venire. Il percorso di Krug è assimilabile all’askesis, un esercizio improntato alla conoscenza migliore di sé, del passato e dei propri simili per giungere a una improbabile liberazione. Il dato finale è troppo ingiurioso per ottenere l’assoluzione sperata: la colpa si annida nei nuclei più improbabili, convivendo per decenni con i familiari più stretti, con le comunità e tradendo l’animismo popolare che dai tempi dei fratelli Grimm fa convergere, nella comunità germanica, un Volk unito e omogeneo, l’ideale di una terra che non tradisce l’indissolubile legame di sangue con i suoi figli. Su quella terra Krug incide i primi interrogativi e invita a praticare un esercizio di riflessione collettiva, consapevole che la conoscenza (Erfahrung) sia l’argine alla deriva del populismo nazionalista vecchio e nuovo
La scrittura di Aki Shimazaki è meno genuflessa al timore di dissotterrare, ma non per questo meno misteriosa. Il dato oggettivo e il fatto storico, obiettivo ultimo del romanzo della scrittrice nipponica, sono ammantati dalla coltre del dubbio e del mistero, al punto da costringere a una riflessione imperiosa sull’autorialità del misfatto bellico a firma del popolo Yamato. Questo grazie anche a un espediente narrativo di impatto: la concatenazione causale della trama con storie segmentate che si snodano attraverso generazioni di giapponesi alle prese con una egotizzazione che rischia di implodere. Così, nel corso del romanzo la terra del Sol levante si presta a una metamorfosi: da terra del dubbio a territorio in cui il male si consuma nelle forme più efferate.
A differenza di Krug, che prova a salvare l’effimero valorizzando la componente sentimentale dell’uomo, Shimazaki non fa ammenda della colpa, tratteggiando il polimorfismo di un uomo beffardo e menzognero. Su tale traccia finisce per apporre il sigillo della perentorietà: tutto è destinato a risalire in superficie. Il veto della scrittrice ricade anche su eventuali finalità catartiche dell’opera: la terra di Yamato non è fertile per un percorso palingenetico similare a quello intrapreso da Krug. Se Heimat anticipa la conversione dell’uomo postbellico dopo il martirio, Shimazaki trattiene lo sguardo sulla compartecipazione consapevole e dolosa dei giapponesi allo scempio della guerra. Sotto gli occhi del lettore sfilano generazioni di personaggi che provano a rintuzzare i colpi della memoria. Nel lungo romanzo la sete di conoscenza dei personaggi libera la risalita delle emozioni dopo un atavico e ostinato silenzio: l’ignavia ha giocato la sua parte, avviluppando le coscienze lacerate di personaggi illusi di obliterare il passato. Il senso di colpa corrode molti protagonisti spingendoli a una riflessione serrata prima di congedarsi dalla vita terrena.
La découverte viene orchestrata dalla Shimazaki con grande incisività. La scrittrice rifugge l’espediente della causalità diretta: il protagonista si apre a una conoscenza graduale, si racconta e, con una certa difformità rispetto alla vaghezza e al carattere naïf del tradizionale romanzo giapponese, la scrittrice riporta nel campo della soggettività l’autorialità delle azioni. Un’anziana donna si risolve a denunciare la propria colpevolezza rispetto al parricidio compiuto decenni prima; i figli scoprono la paternità; le nonne raccontano il passato non già attraverso il prisma multifocale con cui i giapponesi consegnano la verità al lettore, bensì attraverso il richiamo accorato della natura.
L’alternarsi delle stagioni coincide con associazioni onomastiche che invocano l’accostamento dell’uomo al creato divino, in una sinergia cosmica destinata ad assegnare a tutto e tutti il posto che spetta. L’autrice si avvale della natura come termine di confronto con l’uomo, quasi a invocare il ritorno, a ritroso, alle origini primordiali. Non è neppure un caso che l’apertura e la conclusione del romanzo coincidano con l’emblema della morte, la metaforica espressione del ritorno allo stadio naturale. Se Krug prova a edificare il presente sul costrutto del passato e dello smarrimento della coscienza globale, Shimazaki compie il processo inverso: trasferire nel passato un sistema valoriale declinato al positivo. La terra degli Yamato assurge a emblema di uno scadimento complessivo dell’uomo, il cui ritmo è amplificato dalla correità e dal contesto abnorme della guerra.
Eppure, i due romanzi, nel loro impianto teleologico, liberano energie e una costruzione uniforme: il confronto della maestosità della Storia per riguadagnare all’uomo dignità e raziocinio (Vernunft). Una Storia, beninteso, non più hybris, forza occulta che interviene giustapponendosi all’agire umano, bensì una vis livellatrice impegnata a ricreare l’equilibrio cosmico. Un ritorno agli avi nella Germania agognata, più che conosciuta, di Krug, all’ancestralità di Amaterasu e delle divinità che popolano la Terra di mezzo, nel Giappone di Shimazaki.
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Gianluca Sorrentino
(LucidaMente 3000, anno XVI, n. 183, marzo 2021)