Da sempre l’umanità non ha mai minimamente esitato a disporre a proprio piacimento delle risorse che la natura le ha offerto, o che “le ha messo a disposizione”, così come “egocentricamente” si è soliti dire, usando un’espressione cinica e tagliente che rende al meglio, più di mille altre parole, il concetto di sopruso dell’essere più forte su quello più debole.
Argomenti e pratiche che hanno attraversato pressoché indenni i secoli, cambiando magari forma, tecniche e obiettivi finali, ma senza mai riuscire a fare a meno del presupposto inevitabile che vede un essere vivente privato della propria libertà o, spesso, una vita soccombere a favore di un’altra.
Allevare un visone o un castoro per poi farne una pelliccia può essere certamente deprecabile, ma forse lo è anche crescere un animale da cortile in modo quasi amorevole, per poi farlo troneggiare al centro di una tavola al meglio imbandita.
Certamente è orribile ciò cui altri esseri viventi sono a volte sottoposti per soddisfare le nostre necessità, ma il punto chiave è proprio questo: capire qual è il limite entro il quale il nostro bisogno ci fa tollerare ciò che accade agli animali.
L’oca e la cavia – Se pensiamo che sia lecito uccidere per mangiare, ma che lo sia molto meno farlo per vezzo, come succede per esempio con gli animali da pelliccia, apparentemente stabiliamo un confine etico e morale entro il quale muoverci tranquillamente, senza che la coscienza ci tormenti con i sensi di colpa. Se, però, scaviamo nemmeno tanto a fondo, notiamo che non si è certo così risolto il problema della tutela dei diritti di vita e dignità degli altri esseri viventi. Succede, infatti, che da una parte si inorridisca al pensiero di cosa possa essere iniettato nelle vene di un topolino da laboratorio, ma non ci si curi poi minimamente di ciò che sono costrette a subire, per esempio, migliaia di oche nella civilissima Francia. Stipate, immobilizzate e costrette a stare con il becco aperto. Rimpinzate forzatamente più volte al giorno, non tanto per farle ingrassare e aumentare così di peso, quanto per provocare loro una steatosi, vale a dire una malattia del fegato che ne comporta uno smisurato ingrossamento dovuto ad un eccesso lipidico (grasso). Il tutto per essere poi immolate sull’altare della nouvelle cousine, sotto forma di foi gras (alla lettera, “fegato grasso”: salsa per accompagnare primi piatti e carni, ottenuta riducendo in purea il fegato delle oche).
La questione della vivisezione – Per non parlare degli allevamenti di conigli nei Paesi Bassi. Meravigliosi esemplari costretti a vivere e crescere su assicelle di legno poste a parecchi metri dal suolo, cosicché quelle bestie, terrorizzate dal vuoto, se ne stanno pressoché costantemente immobili senza disperdere preziose calorie, e quindi massa corporea, conservando così una muscolatura molto debole che genera poi prelibate carni bianche e tenere. Trattando, poi, la vivisezione e la sperimentazione di farmaci sugli animali, se consideriamo accettabile l’equazione “uccidere per mangiare è lecito, uccidere per vezzo invece no”, ammettiamo implicitamente che la nostra sopravvivenza giustifica la morte di un altro essere vivente. Ma, se le cose stanno così, l’utilizzo di cavie per sperimentare un farmaco non è forse uno dei modi con cui ce la garantiamo, la nostra sopravvivenza? Gli schieramenti contrapposti dei sostenitori e degli oppositori della vivisezione, e delle sperimentazioni in genere su animali, si trovano a combattere su un fronte ampio, ma tanto sottile da essere facilmente attraversabile da ambo le parti. Torturare e uccidere un animale è lecito se lo si fa per sperimentare un medicinale? Si potrebbe facilmente rispondere di no, ma avrebbe la stessa certezza di risposta chi vede in quel farmaco una speranza di salvezza per un proprio caro? Non sempre si ha la fortuna di poter guardare le questioni da una distanza sufficiente per poterle valutare obbiettivamente e serenamente.
Risposte difficili – C’è un dedalo di teorie e teoremi, di logiche forti ma dai contorni sfumati, di dati tanto oggettivi quanto discutibili, di etiche scientifiche e morali dal quale difficilmente si può uscire e trovare una verità assoluta. Non senza cadere nell’ipocrisia e nella retorica. Non senza perdere durante il tragitto buona parte delle certezze che si avevano all’inizio. Ci si trova così, infine, al punto di partenza, a parlare della morale e dell’etica di questi tempi, dove l’opulenza, il benessere, i progressi della scienza e della medicina ci hanno permesso il lusso di poter disquisire anche di questi argomenti. Opportunità che non hanno avuto molte delle generazioni passate, con una progressione, andando a ritroso nel tempo, pressoché esponenziale. Generazioni che erano troppo impegnate a soddisfare i bisogni primari quotidiani, per potersi permettere troppe domande e troppi interrogativi etici e morali su come veniva fatto. Quand’è allora che la vita giustifica la morte? Risulta molto facile nutrire stima ed ammirazione verso coloro i quali riescono ad avere un’opinione precisa al riguardo, ma è allo stesso tempo molto difficile biasimare chi non se la sente di dare risposta ad una domanda come questa che, inevitabilmente, pone davanti al bivio di una scelta che nessuno vorrebbe essere costretto a fare mai.
Davide Piazzi
(LucidaMente, anno I, n. 7, luglio 2006)