Una lunga riflessione sulla natura umana occupa per intero il romanzo “7 pagine bianche” (Salento Books) del narratore Fabio Bacile di Castiglione
«Non sopporto il peso del silenzio, così inizio a dar voce a quella parte di me che non conosco, e che forse non sono neppure, e mi metto a esercitare quel dono doloroso che è lo scrivere, accorgendomi di come scrivere e disegnare siano due attività molto simili: dapprima si cerca nell’amorfa materia del proprio pensiero un’intuizione, quindi si stende un canovaccio o un bozzetto, poi si procede al perfezionamento di questo. Alla fine arriva il difficile: prendere la gomma in mano e cancellare. L’eliminazione del ridondante, dell’inutile o dell’eccessivamente descritto, è probabilmente il momento più importante, di certo il più doloroso, perché si ha la sensazione di mutilare una propria creatura»
Avete appena letto l’intenso incipit di 7 pagine bianche (Salento Books, pp. 78, € 12,00), una riflessione sotto forma di copione teatrale su tutto quanto riguarda la nostra esistenza, in un continuo oscillare fra Eros e Thanatos. L’autore è Fabio Bacile di Castiglione: odontoiatra appassionato d’arte (come da tradizione di famiglia), ha restaurato l’ipogeo di Spongano, suo paese d’origine nel cuore del Salento, per ospitare mostre, concerti, spettacoli teatrali e presentazioni di libri. Con Salento Books ha già pubblicato Grafici di borsa e con Albatros il Filo Vita. In 7 pagine bianche sono due soli i suoi personaggi senza nome (una escort e un suo cliente, vale a dire due intelligenze a confronto, masculin féminin citando Jean-Luc Godard), che sin dall’inizio l’autore carica di valenze emblematiche.
Al di fuor di qualsiasi pretesa realistica (l’impianto del colloquio è straniante nel senso brechtiano del termine), dissertano con disinvolta padronanza, sia contenutistica sia lessicale, di filosofia, religione, politica, morale, sentimenti. Il senso ultimo di questo flusso ininterrotto di parole pare annidarsi nel passaggio che segue, e più avanti si spiegherà il perché: «Alle volte basta una parola che suscita in noi tristi ricordi per aprire antiche ferite. Il dolore risale dal profondo come magma bruciante, riporta in vita quel che ci ha fatto male e noi soffriamo di nuovo. Tutto questo, però, spesso ci rende più vicini a chi patisce o ha patito con noi. Non credo sia un caso che la comunione si faccia dopo aver ricordato la morte ed essersi abbracciati nella pace. Solo dopo la putrefazione può esserci la rinascita».
Ma il disagio incombe oltre la soglia: «Il nostro incontro mi è utile più del lettino dello psicoterapeuta. Chi fa il tuo lavoro rinnova una tradizione», dichiara l’uomo, sovvertendo ogni paradigma moralistico sul ruolo della prostituta nella società. E la donna lo asseconda: sa ascoltare, e anche replicare, a volte con acida cattiveria, a volte con disarmante dolcezza. Lui si abbandona a premonizioni apocalittiche, in cui fermenta il ricordo ancora bruciante di Chernobyl: «Ho fatto un sogno strano. Ho sognato che la tomba di piombo per cinquecentosessant’anni soffocherà il fuoco, ma questo continuerà a bruciare e quando il sarcofago verrà scoperchiato l’aria, rianimando la brace, genererà la luce».
E analizza lucidamente anche l’attuale decadenza della civiltà occidentale: «Quando un uomo, una famiglia o una società si preoccupano troppo dell’apparire, allora un grande vuoto ne sta minando le fondamenta. È questo che accade oggi». Entrambi hanno accettato le spietate regole della mercificazione e dello scambio, pur anelando a qualcosa di diametralmente opposto. L’uomo, vanamente proteso verso un archetipo irraggiungibile di bellezza come il von Aschenbach di Morte a Venezia, è ossessionato dal fantasma di una moglie da poco scomparsa; dal canto suo, la donna, troppo colta e perspicace rispetto alla professione radicalmente “corporea” che esercita, opera una quotidiana e brutale scissione tra carne e spirito.
Afferma la donna: «Quando si parla di realtà, infatti, s’intende ciò che i nostri sensi ci fanno percepire, mentre la verità è un qualcosa di trascendente. Si è finito così per diventare pragmatici, sostituendo l’utile al necessario, e questo ci ha portato al consumismo, che scambia il futile con l’ideale». Replica l’uomo: «Sono sempre stato convinto che la morale sia stata creata per dare ordine al vivere civile, e la religione per giustificarla e consolare l’uomo della sua limitatezza. Ecco perché non ho mai dato troppo peso né all’una né all’altra». Idealismo e cinismo a confronto, parrebbe, ma in realtà le posizioni divergenti finiscono quasi sempre per sovrapporsi e confondersi. Funge da sfondo a questa landa desolata di utopie disilluse una ragnatela di citazioni filosofiche, letterarie, psicanalitiche: da Platone ad Avicenna, da san Francesco a Marsilio Ficino, da Stendhal a Wilde, da Nietzsche a Marie-Louise von Franz.
Confessa lei: «I sogni si sono separati dalla realtà e ho conosciuto i compromessi, le disillusioni, la paura». Il duello verbale fra i due si riaccende dopo l’intimità fisica, si fa incalzante, affonda il bisturi nelle loro lacerazioni interiori, nel loro disperato e inappagato bisogno di amare e di sentirsi amati. Lui: «Che bella sei, rorida dopo l’amore». Lei: «Perdonami, ma ti correggo: sarò anche bella imperlata di sudore, ma questo è solo sesso. Ti rammento che per me tu sei un cliente». Lui: «Eppure il tuo piacere non è finzione!». Lei: «Sì? E chi te l’ha detto?». Lui: «Il tuo melismatico fremere». Lei: «D’accordo, ho goduto, ma non per questo ho amato».
Infine, cala il sipario sull’ultimo atto del dramma. La schermaglia fra i due protagonisti si avvia lentamente verso l’epilogo, in un clima sempre più cupo, malinconico e crepuscolare. Mettendo a nudo non solo i loro corpi, ma anche le anime, si sono spinti oltre un limite che, per uno dei due, rappresenta un punto di non ritorno. Riflette la donna: «L’uomo nasce in catene, solo la morte può liberarci dal giogo delle pulsioni. Non credo che esercitarsi a schivarle porti ad altro che a soffrire per esse… meglio lasciarle scorrere senza farci troppo caso». Un coup de théâtre non del tutto inatteso, ma sapientemente anticipato da pochi, inconfondibili segnali, chiude il dialogo come una saracinesca calata repentinamente dall’alto, dentro la dimensione più genuina dello psicodramma teatrale, nel solco tracciato da Ibsen, Strindberg e Sartre in letteratura, e da Bergman, Pasolini e Bresson nel cinema. La frase finale riecheggia L’opera al nero di Marguerite Yourcenar: «Eamus ad dormiendum, cor meum». In conclusione, ricordiamo che il libro fa parte della scuderia di Bottega editoriale, l’agenzia letteraria diretta da Fulvio Mazza.
Guglielmo Colombero
(LucidaMente, anno XII, n. 137, maggio 2017)