1.LA PROBLEMATICA GIURIDICA DEL CONTRATTO COLLETTIVO DI DIRITTO COMUNE
Il contratto collettivo è identificabile come il contratto con cui i soggetti collettivi (organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori) predeterminano la disciplina dei rapporti individuali di lavoro (cosiddetta parte normativa) e regolano anche taluni tratti dei loro rapporti reciproci (cosiddetta parte obbligatoria).
Sono rinvenibili almeno quattro tipi di contratto collettivo: quello corporativo, quello c.d. di diritto comune, quello prefigurato dal legislatore costituente e quello recepito in decreto legislativo ai sensi della legge 741/1959.L’unico che continua ad essere prodotto è il contratto collettivo di diritto comune.
Il contratto corporativo è un contratto tipico, elevato a fonte del diritto in senso proprio, anche se subordinata a leggi e regolamenti. Contratto tipico in quanto oggetto di una specifica disciplina legale (gli artt. 2068-2081 cod. civ.)
La soppressione dell’ordinamento corporativo e delle organizzazioni sindacali fasciste hanno coinvolto i contratti corporativi e la loro disciplina legale.
Il legislatore post-corporativo non detta tuttavia una disciplina tipica del contratto collettivo, così che gli operatori giuridici sono costretti a prendere atto che il contratto collettivo stipulato da libere associazioni sindacali è un contratto atipico, sfornito di specifica regolamentazione legale. La giurisprudenza si assume il compito di ricostruire man mano le linee fondamentali della sua disciplina, in parte ricavandola da quella codicistica dei contratti in generale (artt. 1321 e seguenti del codice civile) – ed è per questo che si parla di contratto collettivo di diritto comune – in parte recuperando tratti della disciplina codicistica del contratto corporativo. Il contratto collettivo di diritto comune finisce così per apparire un istituto di origine largamente giurisprudenziale. Le problematiche del contratto collettivo di diritto comune si incentrano sulla efficacia della parte normativa nei confronti dei rapporti individuali di lavoro, e possono essere accorpate attorno a due temi di fondo: ambito e tipo dell’efficacia stessa.
2.L’AMBITO DI EFFICACIA DEL CONTRATTO COLLETTIVO
Nel sistema corporativo i sindacati registrati erano espressione di categorie individuate nel numero e nell’estensione dall’autorità amministrativa e portavano una rappresentanza di carattere istituzionale degli appartenenti alle categorie stesse. Di conseguenza i sindacati registrati si vedevano attribuito dalla legge il potere di stipulare contratti collettivi aventi come destinatari (e quindi efficaci nei confronti di) tutti gli appartenenti alle rispettive categorie.
Con la caduta del sistema corporativo le associazioni sindacali divengono libere di individuare l’ambito delle categorie di cui intendono farsi espressione e l’ambito di efficacia del contratto collettivo, ma al tempo stesso perdono il potere di rappresentanza istituzionale degli appartenenti a tali categorie.
Gli operatori giuridici si vedono allora costretti a spiegare alla stregua del diritto comune, come un contratto stipulato a livello collettivo tra associazioni sindacali possa produrre effetti nella sfera giuridica di altri soggetti, e precisamente del singolo datore di lavoro e del singolo lavoratore, sul piano del rapporto individuale di lavoro. E danno soluzione al problema ricorrendo alla figura giuridica della rappresentanza, limitatamente tuttavia, all’ipotesi che i singoli appartengano alle associazioni sindacali stipulanti. La conseguenza, in prima approssimazione, è che (solo) il datore di lavoro iscritto all’organizzazione sindacale dei datori di lavoro è tenuto all’applicazione del contratto collettivo nei confronti dei (soli) lavoratori sindacalmente associati. Ulteriore conseguenza è che il datore di lavoro che receda dalla propria organizzazione si libera dall’obbligo di applicare i contratti collettivi stipulati successivamente al recesso, ma resta vincolato fino alla scadenza all’applicazione di quello vigente nel momento in cui il recesso si è verificato.
3.OPERAZIONI GIURISPRUDENZIALI SULL’AMBITO DI EFFICACIA
Pur restando in linea di principio fedele alla ricostruzione del contratto collettivo di diritto comune secondo il modulo della rappresentanza, la giurisprudenza si è sforzata di dilatarne l’ambito di applicazione.
a) Il contratto collettivo è così ritenuto applicabile, anche in mancanza del requisito dell’iscrizione quando le parti individuali vi abbiano preso esplicita o implicita adesione.
Il primo caso si verifica normalmente quando il contratto individuale rinvia alla disciplina collettiva. Avendo accetto il contratto collettivo quale fonte regolatrice, il datore non si può più liberare unilateralmente dal vincolo, indipendentemente dalle proprie vicende associative.
Il secondo caso si verifica quando il contratto collettivo è spontaneamente applicato. Ciò avviene quando vengono applicate numerose e significative clausole: il datore di lavoro è allora tenuto ad applicare il contratto nella sua integralità.
Va precisato che la recezione implicita opera con riguardo ad un contratto collettivo determinato; il datore di lavoro, in occasione della stipulazione di un nuovo contratto collettivo, può quindi dichiarare la propria volontà di sottrarsi alla sua applicazione.
Con riguardo infine alla posizione processuale del lavoratore che invoca l’applicazione del contratto collettivo, la giurisprudenza ha sempre affermato che egli deve fornire la prova dell’iscrizione del datore o della recezione implicita o esplicita del contratto collettivo; tale prova non è necessaria “quando il dibattito tra le parti si sia svolto sul presupposto, anche implicito, della assoggettabilità del rapporto individuale al contratto collettivo, per adesione alla relativa disciplina o per recezione di questa nel contratto individuale.
b) La giurisprudenza è pervenuta inoltre a ritenere che il datore di lavoro iscritto è tenuto ad applicare il contratto collettivo anche ai lavoratori non iscritti, non potendo impedire che essi manifestino la volontà di conformare ad esso il contratto di lavoro individuale.
L’imprenditore che si associa infatti è consapevole del fatto che i contratti collettivi sia nella lettera, sia nella struttura, sia nelle loro finalità pacificatorie “rivelano la chiara intenzione delle parti contraenti di considerarli come norma generale di disciplina dei rapporti di lavoro” e in quanto tali “aperti alla generalità dei dipendenti”.
c) Le operazioni giurisprudenziali sull’adesione, esplicita o implicita, al contratto collettivo restano sul pian privatistico, ed esprimono lo sforzo di conciliare con il diritto comune e con il principio costituzionale di libertà sindacale le naturali peculiarità di quel contratto, con la propensione ad estendere la propria efficacia oltre l’ambito degli iscritti. Non altrettanto può dirsi dell’operazione di recupero dell’art.2070 cod.civ. Secondo cui il datore di lavoro deve applicare il contratto corrispondente alla propria attività, e se svolge più attività, distinti contratti qualora queste siano autonome tra loro, o il contratto corrispondente all’attività principale se le altre sono accessorie o complementari. La sopravvivenza dell’art 2070 alla caduta dell’ordinamento corporativo per la verità è sempre stata affermata più che argomentata. Paradigmatica l’asserzione secondo cui “l’art.2070, in tutte le sue disposizioni, è ancora operante in quanto non direttamente vincolato all’ordinamento corporativo, ma risponde a esigenze dell’azione sindacale e soprattutto della disciplina di categoria” e “quindi detta una disciplina di natura pubblicistica e, come tale, inderogabile dalla volontà delle parti”.
La situazione in questione è stata chiarita definitivamente quando la Cassazione ha esplicitamente dichiarato l’incompatibilità tra il principio di libertà sindacale di cui all’art.39 1°comma Cost. ed il criterio di appartenenza alla categoria imprenditoriale fissato dall’art.2070 cod.civ.
Nell’applicare il contratto collettivo non si può infatti prescindere dal dato dell’affiliazione sindacale , tanto che l’art 2070 risulta compatibile con il regime privatistico del contratto collettivo a condizione che gli si attribuisca una mera funzione suppletiva, cioè la funzione di orientare l’interpretazione allorquando il contratto individuale opera un generico rinvio al contratto collettivo e occorre stabilire quale contratto le parti hanno inteso richiamare nell’ipotesi di datore di lavoro che svolge più attività, sia egli o meno affiliato a qualche sindacato.
Datore di lavoro e lavoratore possono pertanto accordarsi per l’applicazione di un contratto collettivo diverso da quello corrispondente all’attività svolta dal primo, salvo che ne derivi un trattamento economicamente più sfavorevole al lavoratore.
d) A partire dalla metà degli anni Cinquanta, la giurisprudenza è andata applicando, sia pure indirettamente i minimi tariffari del contratto collettivo anche ai rapporti di lavoro con imprenditori non iscritti alle organizzazioni stipulanti. L’orientamento è stato fondato sull’art.36 Cost e sull’art 2099 codice civile. L’art 36, che garantisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, è stato riconosciuto quale norma precettiva di immediata efficacia anche nei rapporti tra privati, suscettibile quindi di essere utilizzato dal giudice anche indipendentemente da interventi legislativi d’attuazione, per lo meno sotto il profilo della sufficienza. I giudici hanno allora normalmente utilizzato i minimi tariffari dei contratti collettivi come parametri della conformità alla regola costituzionale del trattamento retributivo fissato dalle parti individuali, giudicando nulle le pattuizioni comportanti un trattamento economico inferiore a quei minimi.
Equiparando l’ipotesi di nullità della disciplina retributiva pattuita all’ipotesi di assenza di un accordo delle parti circa la misura della retribuzione, i giudici hanno ritenuto di poter invocare l’art 2099, secondo cui “in mancanza di norme corporative o di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice”.
4.INTERVENTI LEGISLATIVI SULL’AMBITO DI EFFICACIA
Dalla fine degli anni Quaranta si sono succeduti vari interventi legislativi, a operare una dilatazione dell’ambito di applicazione dei contratti collettivi di diritto comune.
a) La consacrazione dell’efficacia generalizzata dei contratti collettivi è stata in un primo momento ravvisata in quelle disposizioni che sanciscono l’obbligo del datore di lavoro di osservare le norme dei contratti collettivi e di retribuire il prestatore in conformità alle tariffe in essi contenute.
b) L’intervento più importante è collocabile verso la fine degli anni Cinquanta, quando il legislatore, acquisita l’impraticabilità di una norma attuativa dell’art.39 Cost., tentò di condurre diversamente a soluzione definitiva il problema dell’efficacia generale dei contratti collettivi. Con la legge 14 luglio 1959, n. 741, il Parlamento delegò il Governo ad emanare, nel termine di un anno, decreti aventi come contenuto i contratti collettivi stipulati fino alla data di entrata in vigore della legge.
c) Il legislatore tornò così a sperimentare soluzioni parziali e settoriale, ispirate al programma di pervenire in via indiretta alla dilatazione dell’ambito di efficacia dei contratti collettivi.
Ad esempio la l’art 36 dello Statuto dei lavoratori impone alle amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici di inserire, nei provvedimenti di concessione di benefici a favore di imprenditori e nei capitolati di appalto attinenti all’esecuzione di opere pubbliche, una clausola esplicita determinante l’obbligo per il beneficiario o appaltatore di applicare o far applicare, nei confronti dei lavoratori dipendenti, condizioni di trattamento non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria o della zona. Tale clausola deve essere inserita anche nei contratti di concessione di servizi e forniture.
Simile meccanismo premiante, atto a conseguire un erga omnes indiretto, è contenuto ora nell’art 10 della legge n. 30 del 2003 (legge delega di riforma del diritto di lavoro), che impone alle imprese artigiane, commerciali e del turismo, quale condizione per beneficiare di agevolazioni pubbliche normative o contributive, l’osservanza integrale degli accordi e contratti collettivi nazionali, regionali, territoriali o aziendali.
d) Fra gli interventi volti a favorire l’estensione dell’ambito di applicazione dei contratti collettivi, vanno annoverati quelli in materia di fiscalizzazione degli oneri sociali, che condizionano la fruizione del relativo beneficio alla circostanza che l’impresa assicuri ai propri dipendenti trattamenti non inferiori ai minimi previsti dai contratti collettivi nazionali di categoria, stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.
e) A partire dal 1989 il legislatore ha peraltro stabilito che, per le imprese ubicate nei territori del Mezzogiorno e in aree insufficientemente sviluppate, il Ministro del lavoro può disporre la sospensione della condizione dell’osservanza dei contratti collettivi al fine di salvaguardare i livelli occupazionali e sulla base di un graduale programma di riallineamento.
5.L’AMBITO DI EFFICACIA DEL CONTRATTO COLLETTIVO DI LIVELLO AZIENDALE. IL CONTRATTO COLLETTIVO GESTIONALE E LA TEORIA DELLA PROCEDIMENTALIZZAZIONE
Un tempo disconosciuta la contrattazione aziendale ha acquistato sempre maggiori spazi all’interno del sistema. È ora pacifica in giurisprudenza la definizione del contratto collettivo aziendale come atto di autonomia negoziale, preordinato a un’uniforme disciplina dell’interesse collettivo dei lavoratori, con un’efficacia normativa generale, tipica della contrattazione collettiva, sia pur limitatamente ad una sola azienda.
In materia di contrattazione aziendale si registra una fitta serie di interventi legislativi diretti ad attribuire efficacia generale agli atti di autonomia collettiva (cd. Legislazione di rinvio). Nella legislazione di rinvio si verifica una sorta di capovolgimento rispetto alla prospettiva classica dell’erga omnes: non si tratta più di garantire ai lavoratori non iscritti lo stesso trattamento riservato agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti, ma di giustificare l’applicazione del contratto collettivo, nonostante la presenza di un eventuale dissenso da parte dei lavoratori non iscritti.
Non sembra comunque fino ad oggi possibile registrare interventi legislativi che abbiano attribuito in modo diretto efficacia normativa generale ai contratti aziendali, anche se più di una volta ne hanno favorito l’espansione a tutti i lavoratori dell’azienda.
Una diretta attribuzione di efficacia generale agli accordi aziendali non è rinvenibile ad esempio nella disciplina legislativa in materia di riduzioni concordate dell’orario di lavoro.
Il primo tipo dei cd. contratti di solidarietà (quelli di cui all’art 1, legge n. 863/1984) stipulati al fine di evitare, in tutto o in parte, la riduzione o la dichiarazione di esuberanza del personale anche attraverso un suo più razionale impiego è pienamente riconducibile al sistema della Cig straordinaria, quindi gli effetti modificativi sui rapporti di lavoro discendono non dall’accordo sindacale ma dal provvedimento ministeriale di ammissione all’integrazione salariale (Cig)
Neppure i contratti di solidarietà del secondo tipo (quelli di cui al 2° comma della medesima legge) stipulati al fine di incrementare gli organici sono provvisti dal legislatore di generale efficacia normativa nei confronti di tutti i rapporti individuali.
La disciplina legislativa si limita ad assumere i contratti di solidarietà quali presupposti di interventi di sostegno a favore del datore di lavoro (es. contributi per i nuovi assunti) o dei lavoratori prossimi al pensionamento.
Ad una costruzione particolare ha fatto ricorso la Corte Costituzionale nel dichiarare la legittimità dell’art 5 della legge n. 223 del 1991, laddove affida ai contratti collettivi il compito di determinare i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare collettivamente. Il contratto aziendale non ha sempre una funzione normativa, anzi spesso assume una funzione gestionale, nel senso che si occupa di gestire situazioni di crisi in occasione delle quali può farsi veicolo di distribuzione di sacrifici.
In tali ipotesi di crisi, ha precisato la Corte, l’accordo sindacale non spiega direttamente i suoi effetti sul rapporto di lavoro, ma si limita a costituire un momento del procedimento che il datore deve seguire per esercitare il proprio potere, ab origine unilaterale. L’effetto erga omnes, quindi, discende pur sempre dall’atto del datore di lavoro che esercita i suoi poteri imprenditoriali, e non dall’accordo sindacale gestionale che è solo un tramite per la procedimentalizzazione dell’esercizio di quei poteri. In tal modo, è strutturalmente impossibile che sorga contrasto con l’art 39 Cost. Lo schema della procedimentalizzazione riecheggia anche nella pronuncia della Corte costituzionale n. 344 del 1996, avente ad oggetto gli accordi di determinazione delle prestazioni indispensabili nel settore dei servizi pubblici. Pur valorizzando la peculiarità di questi contratti collettivi (quelli nel settore dei servizi pubblici essenziali), diretti a dirimere conflitti tra i lavoratori e utenti e, proprio per questo assoggettati alla valutazione di idoneità della Commissione di garanzia, la pronuncia n. 344 giunge a ritenere necessaria per la generalizzazione del vincolo la mediazione di un atto ulteriore, ovvero il regolamento di servizio. Da qui la conclusione che l’acquisto dell’efficacia erga omnes per questi contratti avviene per il tramite della loro trasposizione nei regolamenti di servizio, espressamente richiamati dal legislatore.
La pretesa del datore di lavoro di applicare il contratto collettivo stipulato con parte dei sindacati a lavoratori, secondo alcune decisioni della giurisprudenza di merito, configurerebbe condotta antisindacale ai sensi dell’art.28 St.lav. Ed anche la Corte di Cassazione ha escluso che l’efficacia possa essere estesa ai lavoratori aderenti ad un’organizzazione sindacale diversa da quella stipulante e che ne condividano l’esplicito dissenso.
Un ruolo di rilievo giocano in proposito le clausole di inscindibilità inserite normalmente nei contratti collettivi, laddove impediscono al singolo di disaggregarne il contenuto tramite, ad esempio, il rifiuto della sola parte sgradita. Tale inscindibilità può essere riferita non solo al contratto collettivo, ma all’intera sequenza contrattuale cui viene ad inerire il trattamento economico e normativo dei singoli.
Discorso parzialmente diverso va fatto per il contratto stipulato dalla RSU che nasce istituzionalmente come soggetto sindacale dotato sia della rappresentatività, sia della rappresentanza diretta dei lavoratori. Poggiando sul dato della unicità ed autonomia dell’organismo, ai contratti siglati dalla RSU la giurisprudenza riconosce l’efficacia generale.
6.IL TIPO DI EFFICACIA DEL CONTRATTO COLLETTIVO: LA PROBLEMATICA DELL’INDEROGABILITÀ
Posto che il contratto collettivo sia applicabile, resta da stabilire quale efficacia esplichi nei confronti del contratto individuale. Resta da stabilire se il singolo datore di lavoro e il singolo lavoratore possano o meno pattuire una disciplina del rapporto individuale difforme da quella predeterminata nel contratto collettivo.
Una volta correlata l’efficacia di tale contratto alla rappresentanza bilaterale appare subito problematico fondarne l’inderogabilità sul diritto comune. Per diritto comune i rappresentanti, in quanto titolari degli interessi in gioco, possono sempre di comune accordo modificare la regolamentazione di quegli interessi disposta in loro nome e per loro conto dai rappresentanti. Né è lecito argomentare diversamente sulla base degli art 1723 e 1726 del codice civile in tema di mandato, i quali stabiliscono che il mandante non può senza giusta causa revocare il mandato “conferito anche nell’interesse del mandatario o di terzi” ovvero “conferito da più persone con unico atto e per un affare di interesse comune”, ma non prevedono certamente che il mandante deve poi restare fedele alla disciplina dell’affare posta in essere dal mandatario.
La giurisprudenza fece allora ricorso alla disciplina tipica del contratto corporativo contenuta nel codice civile con riferimento all’art.2077 secondo cui stabilisce che i contratti individuali “devono uniformarsi alle disposizioni” del
contratto collettivo e le clausole eventualmente difformi “sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro”.
L’orientamento man mano si diffuse e consolidò, ma non ha mai riscosso il consenso della dottrina, la quale ha rimproverato alla giurisprudenza di essere incorsa in una “petizione di principio”, utilizzando quale premessa del procedimento argomentativo proprio quanto andava invece dimostrato e cioè la riferibilità ad un contratto privatistico, nel quadro dell’ordinamento giuridico post-corporativo, di regole certamente dettate in ragione della particolare natura del contratto corporativo. La scarsa pregnanza di tali teorie ha indotto qualche autore ad assumere come dato di partenza, malgrado il dissenso, la costante applicazione giurisprudenziale dell’art 2077 per attribuirle il ruolo di vera e propria fonte dell’efficacia “normativa” del contratto collettivo. In sostanza, è stato invertito l’ordine del procedimento argomentativo: gli indici già invocati per fondare l’efficacia “normativa” del contratto collettivo vengono ora utilizzati quale supporto di un’efficacia assunta come dato in ragione dell’applicazione giurisprudenziale dell’art 2077.
Quale sia la valutazione circa la persuasività delle riferite impostazioni dottrinali, è certo che esse sono storicamente servite a colmare il divario tra dottrina e giurisprudenza ed a porre le premesse per l’immediata ed unanime valorizzazione, senza traumi e rotture, dell’indice normativo finalmente pregnante e non equivoco offerto nel 1973 dalla riscrittura dell’art 2113 c.c. e dell’art 808 c.p.c.
Il vecchio testo dell’art 2113 sanciva l’invalidità delle rinunzie e transazioni aventi ad oggetto “diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o da norme corporative”; il nuovo testo accanto alle disposizioni inderogabili della legge contempla quelle dei contratti od accordi collettivi: ciò significa che il legislatore attribuisce al contratto collettivo l’efficacia costitutiva di limiti non semplicemente obbligatori ma reali all’autonomia individuale, con la conseguenza che le clausole del contratto collettivo, non dichiarate derogabili dalle parti del medesimo, concorrono a determinare la disciplina dei rapporti individuali di lavoro indipendentemente dalla volontà dei contraenti, a una stregua analoga a quella delle norme imperative di legge.
L’assimilazione della norma di contratto collettivo alla norma di legge dall’angolazione del tipo di efficacia sui rapporti individuali è rinvenibile con chiarezza anche nel nuovo testo dell’art 808 c.p.c., che ai fini dell’impugnazione della sentenza arbitrale equipara la violazione e falsa applicazione dei contratti collettivi alla violazione delle regole di diritto prevista dall’art. 829 c.p.c.
7.L’EFFICACIA NORMATIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO E LA DEROGABILITÀ IN MELIUS
La consacrazione, nell’ordinamento, dell’autonomo potere sindacale di regolazione dei rapporti di lavoro ha favorito l’assimilazione, quanto al tipo di efficacia, del contratto collettivo alla legge e il riconoscimento che, al pari della legge, esso opera nei confronti del contratto individuale dall’esterno quale fonte eteronoma.
Ora occorre fermare l’attenzione sui caratteri dell’inderogabilità, cioè sulle modalità del raffronto tra disciplina collettiva e individuale. Anzitutto va precisato che l’inderogabilità non è assoluta giacché opera a solo vantaggio, e non a danno del lavoratore. Le norme della legislazione in materia di lavoro sono considerate dagli interpreti inderogabili in peius, perché rivolte a porre una disciplina minimale di protezione del lavoratore, ma per ciò stesso derogabili in melius.
La medesima funzione di tutela minimale viene riconosciuta anche al contratto collettivo. La
giurisprudenza ha potuto vedere la regola della derogabilità in melius codificata nell’art.2077, oltreché confermata dalla legge n. 741 del 1959 (laddove assume i contratti collettivi di diritto comune come minimi di trattamento e sancisce che le clausole recepite in decreto sono derogabili a vantaggio dei lavoratori).
La parificazione del contratto collettivo alla legge tende però ad arrestarsi sul piano dei meccanismi di individuazione e di scelta della disciplina più favorevole al prestatore di lavoro. Il raffronto tra legge ed autonomia privata è correntemente operato con riferimento a singole clausole. Le clausole del contratto individuale di contenuto peggiorativo sono sostituite dalla disciplina legale, e non trovano compensazione con il contenuto eventualmente migliorativo di altre clausole dello stesso contratto: i benefici derivanti da queste ultime di cumulano per il lavoratore con quelli derivanti dalle clausole legali più favorevoli (cd. Criterio del cumulo).
Il raffronto tra contratto collettivo e contratto individuale è invece operato usualmente con riferimento all’insieme delle clausole che costituiscono un “istituto”. E ciò anche in ragione della diffusa ricorrenza, nei contratti collettivi, di clausole cd. di inscindibilità, le quali dichiarano appunto “inscindibili” le disposizioni relative a ciascun istituto. Si applica allora integralmente la disciplina (relativa ad un istituto) nel complesso più favorevole: sia pure all’interno dell’istituto, non si cumulano disciplina contrattuale e deroghe migliorative e si realizza invece la compensazione tra deroghe migliorative e deroghe peggiorative (cd. criterio del conglobamento).
La giurisprudenza prevalente ritiene che le condizioni individuali di miglior favore resistano al sopraggiungere della nuova disciplina collettiva solo se sia provato (dal lavoratore) che sono state pattuite intuitu personae, cioè in considerazione di particolari meriti del lavoratore stesso o di particolari circostanze afferenti il suo rapporto di lavoro. Questo generale principio di riassorbimento salariale viene correntemente desunto dall’art 2077, laddove è sancita la salvezza, rispetto alla disciplina collettiva, delle sole clausole individuali che “contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro”; “speciali” viene così inteso come sinonimo di “pattuite intuitu personae”.
8.LEGGE E AUTONOMIA COLLETTIVA
Il contratto collettivo (al pari di quello individuale) deve ritenersi gerarchicamente subordinato alla legge. L’opinione prevalente è però nel senso che il legislatore costituzionale, pur valorizzando l’autonomia sindacale, ha affidato anzitutto al legislatore ordinario (art 35 Cost) il compito di provvedere alla tutela (minima) del lavoratore.
A conferma di ciò la legge costituisce per l’autonomia collettiva – non diversamente, come già visto, per l’autonomia individuale – un limite invalicabile a sfavore del lavoratore, e valicabile invece a suo vantaggio (salvo espressa previsione in contrario).
Tra legge e contratto collettivo, come tra legge e contratto individuale, il raffronto viene poi comunemente operato con riferimento a singole clausole e secondo la tecnica della nullità e della sostituzione automatica. Il giudice dichiara nulla la clausola collettiva difforme in peius rispetto alla previsione legale e la considera sostituta di diritto da quest’ultima.
Di regola la norma di legge è inderogabile in peius e derogabile in melius dal contratto collettivo (come da quello individuale). Nel tempo questo modello di rapporto tra legge e contrattazione collettiva ha però subito gli effetti di una duplice alterazione: da un lato, è andato diffondendosi il modello deregolativo, che prevede la derogabilità in peius del precetto legale da parte della contrattazione collettiva; dall’altro, vi sono stati interventi legislativi che si sono posti come massimi invalicabili nei confronti della contrattazione collettiva (cd. massimi legislativi)
Con la legislazione sul costo del lavoro è stata sancita l’inderogabilità in melius ad opera dell’autonomia collettiva (ed individuale) di una normativa legale. Il legislatore ha cioè qualificato il proprio intervento come diretto non già a fissare un minimo ma un massimo di disciplina del rapporto di lavoro. In particolare, la legge 31 marzo 1997 n. 91, che ha convertito il D.l 1 febbraio 1977 n. 12, sanzionando di nullità “le norme regolamentari e le clausole contrattuali che dispongono in contrasto” con la propria normativa, ha precluso all’autonomia collettiva la possibilità sia di prevedere il computo dell’indennità di contingenza maturata dopo il 1 febbraio 1977 nella base di calcolo dell’indennità di anzianità, sia di regolare l’istituto stesso dell’indennità di contingenza in termini più favorevoli di quelli risultanti dagli accordi interconfederali del 1957 e del 1975 e della prevalente contrattazione di categoria del settore industriale in atto al momento dell’intervento legislativo. Nel 1984 il legislatore è tornato a comprimere l’autonomia collettiva sul piano dell’indennità di contingenza, sia pure senza incidere sul sistema di scala mobile.
Tra interventi deregolativi e interventi limitativi, l’intreccio legge-contratto collettivo si presenta ora assai complesso ed articolato rispetto al classico schema, che però continua ad essere l’archetipo del diritto del lavoro, e che vede la legge dettare una disciplina minimale, sempre derogabile in meglio ma non in peggio dell’autonomia collettiva.
Se gli interventi “deregolativi” hanno suscitato perplessità di ordine costituzionale dall’angolazione della portata generale che per loro tramite sembra acquistare in taluni casi la disciplina del contratto collettivo di diritto comune, gli interventi limitativi hanno chiamato in causa gli stessi equilibri fondamentali dell’assetto istituzionale ed hanno così ravvivato il dibattito già sviluppatosi nella dottrina degli anni ‘60 con riguardo all’ipotesi della programmazione economica vincolante.
Chiamata a pronunciarsi sulle questioni di costituzionalità suscitate dalla legge n. 91, la Corte costituzionale le ha all’inizio largamente eluse (sentenza n. 141 del 1980), sbarazzandosene in poche battute: “fino a quando l’articolo 39 della costituzione non sarà attuato, non si può, né si deve ipotizzare conflitto tra attività normativa dei sindacati e attività legislativa del Parlamento e chiamare questa corte ad abitarlo”.
Ben diversa è invece stata la risposta con riguardo al D.l n. 70/1984 (sentenza n.34 del 1985): al legislatore deve essere riconosciuta la potestà di imporre limiti inderogabili alla contrattazione collettiva nel perseguimento di “finalità di carattere pubblico, trascendenti l’ambito nel quale si colloca -per la Costituzione- la libertà di organizzazione sindacale e la corrispondente autonomia negoziale” tutelate dall’articolo 39 Cost.
In una sola sentenza (n. 124 del 1991) la corte è giunta a sfumare la sua posizione, laddove, considerando cessata l’emergenza che legittimava il provvedimento legale, ha dichiarato il sopravvenuto contrasto tra la legge n. 91 del 1997 (in materia di indennità di contingenza) e l’articolo 36 Cost, in stretta connessione con l’articolo 39 Cost.
Dopo aver ribadito che l’autonomia collettiva non è immune da limiti legali così che il legislatore può stabilire criteri direttivi, la corte è giunta ad affermare che “entro le linee-guida tracciate dalla legge, le parti sociali devono essere lasciate libere di determinare la misura dell’indicizzazione e gli elementi retributivi sui quali incide.
9.L’EFFICACIA NEL TEMPO DEL CONTRATTO COLLETTIVO: ULTRATTIVITÀ, RETROATTIVITÀ, DIRITTI QUESITI
Le procedure di stipulazione dei contratti collettivi sono state formalizzate solo dal Protocollo del 23 luglio 1993,che prevede relativamente al contratto nazionale di categoria, una durata di quattro anni per la parte normativa, e di due anni per la parte economica. Tre mesi prima della scadenza, le organizzazioni dei datori e dei lavoratori si incontrano per avviare le trattative per il rinnovo.
Per quanto attiene alla parte economica, ii protocollo del luglio 1993 ha non a caso introdotto l’istituto dell’indennità di vacanza contrattuale, un automatismo di secondo grado appositamente finalizzato a disincentivare i ritardi e a proteggere temporaneamente i lavoratori
Quando scade il termine apposto dalle parti stipulanti, il contratto perde la sua efficacia e da quel momento cessa di conformare il contenuto dei rapporti individuali. Questo perché in ragione della sua natura privatistica, la giurisprudenza nega l’applicabilità al contratto collettivo di diritto comune dell’art 2074, che fondava la cosiddetta ultrattività del contratto corporativo: “il contratto collettivo, anche a quanto è stato denunziato, continua a produrre i suoi effetti dopo la scadenza, fino a che sia intervenuto un nuovo regolamento collettivo”
Sono gli stessi contatti collettivi a correre ai ripari mediante l’espressa previsione della propria “ultrattività”, anche nel caso di disdetta.
Altra questione riguarda la possibile retroattività del regolamento collettivo. Così come l’art.2074 cod.civ. La giurisprudenza ritiene inapplicabile al contratto di diritto comune anche il 2°comma
dell’art.11 disp. prel. cod.civ., secondo cui i “contratti collettivi di lavoro possono stabilire per la loro efficacia una data anteriore alla pubblicazione, purché non preceda quella della stipulazione”. Quindi, con riguardo anzitutto ad ipotesi di retrodatazione di benefici economici, ammette correntemente che il contratto collettivo può darsi efficacia retroattiva. E giunge anzi a ritenere che di tali benefici possono giovarsi anche lavoratori il cui rapporto sia cessato anteriormente alla stipulazione del contratto collettivo, se questo non fa differenza tra rapporto cessato e rapporto in corso e se lo statuto dell’associazione sindacale stipulante non prevede la cessazione del vincolo associativo in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro.
In giurisprudenza è altresì rinvenibile l’affermazione che il contratto collettivo può disporre retroattivamente anche “in malam partem”, cioè a danno del lavoratore, “con il solo limite dei diritti quesiti, ovvero di quei diritti che sono già entrati a far parte del patrimonio individuale del lavoratore”.
In questi termini, il richiamo alla figura del “diritto quesito” ha un significato peculiare. Ciò equivale a dire che il lavoratore non ha pretesa alcuna alla stabilità nel tempo di tale disciplina, e non può invocare aspettative legittimamente sorte in ragione del contratto collettivo sostituito. In altre parole, una mera aspettativa non può integrare un diritto quesito. Per la giurisprudenza “ di diritto quesito si può propriamente parlare, sul piano tecnico-giuridico, solo in caso di successione di leggi, e non in caso di successione di diverse regolamentazioni contrattuali di uno stesso rapporto, in cui al principio della retroattività si sostituisce quello della libera volontà dei contraenti… i quali possono conferire efficacia retroattiva al negozio successivo, e porre nel nulla ab origine (e salve le ipotesi reale irreversibilità) la situazione determinata dal precedente contratto.
Secondo l’opinione dominante, il sindacato non può disporre dei diritti già maturati dai singoli per effetto della propria attività negoziale, né attraverso contratti collettivi che modifichino retroattivamente la disciplina da cui quei diritti hanno tratto origine, né attraverso accordi transattivi.
Una puntuale conferma è vista nella disciplina dell’art. 2113 codice civile, 4° comma, laddove al sindacato non è riconosciuto alcun potere sostitutivo della volontà dei singoli sul piano degli atti dispositivi di diritti individuali.
Per l’efficacia di tali accordi è pertanto necessario che da parte dei lavoratori venga rilasciato, anche per fatti concludenti, uno specifico mandato, o che l’accordo venga poi ratificato dagli stessi lavoratori in modo inequivocabile. Al medesimo limite dell’indisponibilità dei diritti soggiacciono, in linea di principio, gli accordi cosiddetti interpretativi, con cui le parti stipulanti formalmente si limitano a chiarire significato e portata di determinate clausole contrattuali
10.I RAPPORTI TRA CONTRATTI COLLETTIVI PRIVATISTICI DI DIVERSO LIVELLO
La questione si pone concretamente in giurisprudenza con riguardo ai rapporti (nel tempo) tra contratti di categoria e contratti aziendali sotto il profilo della reciproca derogabilità (o modificabilità) in peius. Anzi, lo stesso profilo della derogabilità (o sostituibilità) in peius della disciplina del contratto aziendale ad opera di quella dei contratti di livello superiore è venuto in evidenza sono negli anni più recenti, anche ragione della tradizionale presenza nei contratti di categoria di clausole di conservazione delle condizioni di miglior favore in atto nelle aziende.
Storicamente la questione cominciò a porsi con riguardo ai rapporti tra contratti di categoria e contratti stipulati in azienda dalla commissione interna. Il quadro di riferimento è mutato con l’inizio degli anni 60.
Per un certo tempo, la giurisprudenza è parsa ancora propensa a ritenere l’inderogabilità in peius del contratto di categoria in forza di motivazioni diverse, ad esempio, utilizzando l’articolo 2077 del codice civile quale indicatore della strutturale funzione minimale assegnata nell’ordinamento al contratto di categoria o invocando il principio del favor, cioè il “principio generale secondo cui, nel caso di più enorme provenienti da fonti diverse, applicabili alla fattispecie, vale comunque, di regola, quella più favorevole al lavoratore”.
Sul finire degli anni ‘70 il panorama giurisprudenziale è però divenuto assai meno univoco e decifrabile: la giurisprudenza è quindi pervenuta a risultati radicalmente contrastanti.
In una sentenza della Cassazione del 1978 la derogabilità in peius del contratto di categoria ad opera del contratto aziendale viene fondata sulla revocabilità del mandato sindacale: “opera nella indicata ipotesi con tutta la sua forza vincolante, il principio della libera volontà delle parti contraenti, le quali, attraverso un’implicita revoca del mandato conferito alle associazioni che hanno stipulato il contratto collettivo, ritengono, in sede aziendale, di disciplinare in maniera difforme dal contratto collettivo il rapporto contrattuale dei lavoratori che entrino a far parte dell’azienda”.
Un’altra sentenza del 1978, ha contrapposto una ricostruzione tali rapporti fondata sul “mandato discendente” ed è così pervenuta a sostenere che, essendo le associazioni di livello inferiore gerarchicamente subordinate a quelle di livello superiore, i contratti ambientali ( in quanto sottordinati) non possono modificare in peggio la disciplina dettata da quelli di categoria, mentre i secondi (in quanto sovraordinati) possono modificare in peggio la disciplina dettata dai primi.
Agli inizi degli anni ‘80 la giurisprudenza ha ritenuto di poter trasferire sul piano del rapporto tra contratto di categoria e contratto aziendale il principio, costantemente utilizzato sul piano del rapporto tra contratti corporativi e contratti collettivi di diritto comune nonché tra contratti collettivi di diritto comune dello stesso livello, secondo cui quando ad una regolamentazione di carattere generale ne segue un’altra di carattere parimenti generale, la seconda si sostituisce integralmente alla prima. Ed è così divenuta ricorrente l’affermazione che “ un contratto aziendale di lavoro può derogare anche in peius al trattamento previsto per i lavoratori da un precedente contratto con collettivo”, e che, reciprocamente, le clausole di un contratto aziendale “ possono essere erogate da clausole meno favorevoli per i lavoratori, contenute in contratti collettivi successivi, sia aziendali che di categoria”.
La preoccupazione di scongiurare “discrepanze economico-normative nell’ambito di un unico sistema strutturale e funzionale posto dalle parti collettive con presumibile coerenza” ha favorito tuttavia la creazione e l’uso, in funzione compensativa, di altri criteri, quale ad esempio quello di specialità (cioè della fonte più vicino al rapporto, con prevalenza, in melius o in peius, della disciplina speciale su quella generale).
La riforma del sistema contrattuale giunge finalmente in porto con il protocollo del 23 luglio 1993, che prevede due livelli di contrattazione (il nazionale e l’aziendale) e contestualmente dispone il contratto aziendale ha ad oggetto «materie e istituti diversi e non ripetitivi» rispetto a quelli retributivi propri del contratto nazionale; mentre è ancora quest’ultimo a stabilire modalità, ambiti, tempi ed articolazioni del primo.
Il fine delle disposizioni dell’accordo è quello di contenere le dinamiche retributive, quindi di bloccare eventuali fughe in avanti della contrattazione aziendale; e non quello di impedire modifiche o sostituzioni in peius della disciplina collettiva, attuate al livello inferiore.
11.PROFILI ULTERIORI DI DISCIPLINA DEL CONTRATTO COLLETTIVO DI DIRITTO COMUNE
Per tradizione giurisprudenziale ormai consacrata il contratto collettivo di diritto comune, quand’è applicabile, opera nei confronti del contratto individuale con la stessa efficacia della legge. Esso però resta un atto di autonomia privata.
Dalla sua natura privatistica vengono così fatte discendere una serie di conseguenze:
- a) il contratto collettivo deve essere interpretato secondo i criteri ermeneutica previsti per
l’interpretazione dei contratti (art 1362 ss c.c.) e non di quelli per l’interpretazione della legge (art 12 disp. Prel. c.c.)
È allora compito primario dell’interprete ricostruire la comune volontà delle parti contraenti. A tal fine, egli deve innanzitutto utilizzare il dato letterale, cioè attribuire alle parti l’intenzione risultante dal significato delle espressioni usate. Se il dato testuale rimane equivoco, l’interprete deve aiutarsi con la storia del contratto, desumendo la comune intenzione delle parti sia dai temi dibattuti nella trattativa, sia dal modo di redazione delle norme, sia dalla effettiva concreta attuazione, sia dal succedersi dei testi in rispondenza delle esigenze perseguite.
- b) Non è ammissibile il ricorso in Cassazione per violazione o falsa applicazione del contratto
collettivo. L’interpretazione operata dal giudice di merito, oltreché per vizi della motivazione, è quindi censurabile in Cassazione solo per violazione o falsa applicazione delle regole sancite dagli artt. 1362 ss. c.c. Ciò significa che alla Suprema Corte non si può chiedere di fornire l’esatta interpretazione del contratto collettivo, bensì di controllare il procedimento ermeneutica seguito dal giudice di merito.
Diversamente, nel settore pubblico, ai sensi dell’art 63, 5°comma, D.lgs n. 165/2001, è possibile denunziare in Cassazione il contratto collettivo per violazione e falsa applicazione.
- c) Il contratto collettivo deve essere portato in giudizio dalla parte che lo invoca, non potendo trovare applicazione il principio secondo cui il giudice ha diretta conoscenza dei testi di legge. Tuttavia il giudice però può svolgere una funzione di supplenza, giacché l’art 425 c.p.c gli attribuisce la facoltà di richiedere alle associazioni sindacali il testo del contratto di categoria o aziendale, applicabile al rapporto controverso.
Va invece escluso su questa norma possa trovare fondamento il potere del giudice di risolvere la vertenza applicando “d’ufficio” una clausola contrattuale che la parte non abbia invocato a fondamento della propria domanda. Non essendo assimilabile a quella legale, la disciplina del contratto collettivo rientra tra i “fatti” che la parte ha l’onere di allegare nel ricorso introduttivo del giudizio (art 414 c.p.c) e sulla cui base solamente il giudice può risolvere la vertenza. Inoltre il giudice non può fondare la decisione sui fatti non allegati alle parti.
- d) Le clausole del contratto collettivo non sono applicabili in via analogica, né al di fuori dell’ambito di efficacia del contratto stesso, per colmare eventuali lacune del testo contrattuale che regola il rapporto controverso; né all’interno di ciascun contratto per estenderne le clausole al di là dei casi previsti espressamente. L’analogia non è neppure utilizzabile per colmare eventuali lacune del contratto individuale, se il contratto collettivo non è applicabile per difetto di iscrizione o di recezione.
- e) Sempre secondo la giurisprudenza, il principio di eguaglianza sancito dall’art.3 Cost., in quanto inapplicabile ai rapporti tra privati, è inoperante nei confronti dell’autonomia collettiva.
Quindi il contratto collettivo può in linea di massima disciplinare diversamente posizioni di lavoro uguali o analoghe, salvi naturalmente i limiti derivanti da divieti
espressamente posti dal legislatore, ad es. il divieto di discriminazione retributiva per ragion di sesso o di età sancito dall’articolo 37 della costituzione, e, con riguardo al lavoro femminile, gli specifici divieti di discriminazione sanciti dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903 ed alla legge 10 aprile 1991, n. 125.
Resta l’unico spiraglio del recupero della parità di trattamento quale principio ispiratore del procedimento ermeneutico. La suprema corte ha infatti affermato che il giudice, nell’interpretare il contratto collettivo, deve partire dal presupposto che esso persegua l’obiettivo di uniformità delle condizioni di lavoro a parità di presupposti. Con la conseguenza che ogni deroga deve risultare inequivocabilmente voluta dalle parti contraenti, per sicure e specifiche ragioni.
Diverso è naturalmente il decorso per il settore del pubblico impiego, dove sussiste in capo alla pubblica amministrazione, ai sensi dell’art 97 della costituzione ed ora anche ex art 45, 2° comma D.lgs n. 165/2001, l’obbligazione di assicurare ai dipendenti “parità di trattamenti contrattuali”.
f) Pur muovendo dall’assunto della natura privatistica del contratto collettivo di diritto comune, la giurisprudenza ha a lungo negato la possibilità di recedere unilateralmente dal contratto collettivo a tempo indeterminato, considerando il recesso un istituto eccezionale e richiedendo, per la sua legittimità, l’esistenza di una disposizione contrattuale o legislativa ad hoc.
Mutato avviso, la giurisprudenza ora ritiene che la mancata indicazione del termine non implica che gli effetti del contratto perdurino nel tempo senza limiti, dovendosi pur sempre consentire il recesso anche in assenza di esplicita disposizione in tal senso.
g) Data l’assenza di qualsiasi disposizione in proposito, per il contratto collettivo di diritto comune deve ritenersi vigente il principio generale della libertà di forma, come ribadito dalle sezioni unite della Cassazione. Quest’ultima ha così superato il proprio precedente orientamento che sosteneva, sulla base della considerazione della funzione normativa del contratto collettivo e delle correlate esigenze di certezza e riconoscibilità, la necessità della forma scritta ad substantiam.
12.L’EFFICACIA “OBBLIGATORIA” DEL CONTRATTO COLLETTIVO
Ora occorre soffermare l’attenzione sulla problematica dell’efficacia “obbligatoria” del contratto collettivo nei confronti degli stessi soggetti che lo stipulano, sindacati, organizzazioni imprenditoriali e imprenditori singoli.
Occorre cioè anzitutto chiedersi se già dalla stipulazione (della parte normativa) del contratto collettivo discendano obblighi reciproci tra gli stipulanti; ed occorre poi dar conto della parte cosiddetta obbligatoria del contratto collettivo, vale a dire della parte costituita dalle clausole che hanno come destinatari gli stipulanti, i quali con esse assumono reciproci impegni.
La nostra dottrina, come quella tedesca, fa discendere dalla stipulazione del contratto collettivo il c.d. dovere di influenza, il dovere cioè di influire sugli associati affinché osservino la parte normativa del contratto stesso.
Un dovere siffatto non sembra per la verità configurabile in capo al sindacato dei lavoratori: la communis opinio circa la derogabilità in melius del contratto collettivo da parte del contratto individuale implica il riconoscimento che tale contratto ha storicamente assolto e continua ad assolvere, nei confronti dell’autonomia individuale, alla funzione di dettare una disciplina minima, rispetto alla quale il singolo lavoratore può quindi liberamente chiedere e negoziare condizioni di miglior favore.
Sul versante del sindacato dei datori di lavoro, il dovere d’influenza è invece configurabile, ma con un contenuto assai più politico che giuridico, data anche la difficoltà di ricollegare alla sua violazione apprezzabili conseguenze di ordine risarcitorio.
Questione diversa è se il sindacato dei lavoratori debba ritenersi vincolato al contratto collettivo per tutta la sua durata, in dipendenza della stipulazione stessa, con conseguente configurabilità a proprio carico del c.d. obbligo implicito di pace sindacale; l’obbligo cioè di astenersi dal promuovere scioperi finalizzati a conseguire una revisione della disciplina concordata.
Secondo una tesi diffusa in dottrina, deve escludersi che stipulando il contratto collettivo il sindacato dei lavoratori intenda assumere e di fatto assuma impegni per il futuro(al contratto sarebbe assegnata dalle stesse parti o dal sindacato dei lavoratori la funzione di comporre la controversia in atto, e non di scongiurare controversie future.
Parte della dottrina ritiene tuttavia inaccettabile siffatta concezione del contratto collettivo come unilateralmente vincolante (cioè impegnativo solo per il sindacato dei datori di lavoro ed i suoi associati). Essa sarebbe incompatibile con la strutturale sinallagmaticità, e conseguente corrispettività di impegni.
In ogni caso, però, il dovere (implicito) di non rimettere in discussione, prima della scadenza del contratto, la disciplina concordata sarebbe configurabile solo in capo alle organizzazioni sindacali stipulanti, ma nella pratica, sono le organizzazioni di livello inferiore che avanzano rivendicazioni migliorative, normalmente in sede aziendale.
Il problema si pone, del resto, con riguardo al c.d. obbligo esplicito di pace sindacale, cioè all’eventuale impegno di tregua pattuito esplicitamente. In dottrina si è fatta distinzione tra obbligo relativo di tregua, concernente solo le materie compiutamente regolate dal contratto, e obbligo assoluto di tregua, esteso alle materie rimaste estranee al contratto.
La Suprema Corte ha affermato, con riguardo ad una clausola inserita in un contratto stipulato con la commissione interna, la validità della clausola stessa e la sua efficacia anche nei confronti dei singoli lavoratori.
Le clausole comunemente inserite nei contratti di categoria dal ‘62-’63 non possono essere lette negli stessi termini. In esse innegabilmente l’impegno di tregua appare riferito solo al sindacato. Con la conseguenza che risulta superato il dubbio di una loro collisione con l’art 40 Cost: il diritto di sciopero di cui sono titolari i singoli lavoratori non subisce limitazione alcuna.
Il problema nodale finisce allora per rivelarsi quello del coinvolgimento, nell’impegno di pace, e i livelli sindacali inferiori. In ogni caso, possono le confederazioni nazionali di categoria vincolare validamente le federazioni locali di categoria e/o le organizzazioni aziendali?
L’interrogativo è stato eluso dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Le quali hanno dimostrato di voler affrontare il problema dei rapporti tra i diversi livelli organizzativi del sindacato da una diversa angolazione: non già quella della stabilità nel tempo della disciplina concordata bensì quella della sua derogabilità o modificabilità in peggio (validità delle clausole del contratto di livello inferiore che deroghino in peggio al contratto di livello superiore; validità nonché incidenza delle clausole del contratto di livello superiore che modifichino in peggio la disciplina acquisita al livello inferiore).
L’attenzione marginale dedicata da dottrina e giurisprudenza alle clausole di pace sindacale può trovare spiegazione in due ordini di considerazioni.
Anzitutto, la costante disapplicazione dell’impegno di pace e le vicende dell’ “autunno caldo” hanno fatto ben presto addirittura dubitare che le clausole di pace sindacale siano dotate di una qualche efficacia di tipo obbligatorio.
V’è poi, un secondo ordine di considerazioni che consente di spiegare l’attenzione marginale dedicata da dottrina e giurisprudenza alle clausole di pace sindacale. Infatti la questione della configurabilità e dei limiti dell’impegno di pace, pur rilevante nel sistema “politico” delle relazioni industriali, è però sfornita di apprezzabili risvolti sul piano strettamente giudiziario.
Premesso che l’eventuale violazione dell’impegno non incide sulla permanente efficacia del contratto collettivo di categoria nei confronti dei contratti individuali, i profili di responsabilità del sindacato finiscono per venire assorbiti dalla composizione della vertenza per la modifica del contratto e le iniziative giudiziarie in ipotesi intraprese vengono conseguentemente abbandonate.
D’altro canto, il contratto stipulato dal singolo datore di lavoro produce regolarmente tutti i suoi effetti anche con riguardo alle materie implicitamente o esplicitamente sottratte alla negoziazione aziendale: al limite derivante dal contratto di categoria nel regime di comunione non può essere riconosciuta natura “reale” e quindi dalla sua violazione non discende l’invalidità delle clausole che lo violano.
Un tentativo di valorizzazione degli obblighi di pace è contenuto nell’accordo stipulato tra governo e parti sociali il 23 luglio 1993. Esso introduce anzitutto un obbligo esplicito di tregua per il periodo del rinnovo del contratto durante il quale “le parti non assumeranno iniziative unilaterali né procederanno ad azioni dirette”. In ipotesi di violazione dell’impegno assunto si prevede una sanzione economica che comporta, a carico della parte che vi ha dato causa, “l’anticipazione o slittamento di tre mesi del termine a partire dal quale decorre l’indennità di vacanza contrattuale”.
Accanto a questo obbligo di pace, l’accordo ne contiene altri due. Il primo è quello funzionalmente correlato alle clausole istitutive dei raccordi tra il livello contrattuale nazionale e il livello aziendale, dal momento che “la contrattazione aziendale riguarda materie e istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del contratto nazionale di categoria”. Il secondo obbligo è quello correlato alla predeterminazione della durata di contratti.
Oltre alle clausole di rinvio e di pace sindacale, i contratti collettivi presentano numerose altre clausole obbligatorie, con cui i sindacati stipulanti assumono reciproci impegni di vario contenuto. La dottrina suole raggrupparle per tipi, distinguendo, ad esempio, tra clausole cosiddette istituzionali, clausole di amministrazione del contratto collettivo, clausole sulle competenze dei diversi livelli di contrattazione. Le clausole istituzionali prevedono la costituzione di organismi o istituzioni con finalità diverse. Le clausole di amministrazione del contratto collettivo sono finalizzate alla composizione delle controversie collettive o individuali circa l’interpretazione e l’applicazione del contratto stesso. Le clausole sulle competenze dei diversi livelli di contrattazione realizzano la cosiddetta specializzazione delle competenze assegnate ai diversi livelli contrattuali.
Negli anni ‘70 particolare rilievo hanno assunto le clausole appartenenti alla cosiddetta parte prima o parte politica dei contratti, ove sono previsti doveri di informazione a carico dei sindacati dei lavoratori e delle aziende in materia di investimenti, di occupazione, di innovazioni o trasformazioni organizzative e tecnologiche, di decentramento produttivo.
Vi sono infine clausole che hanno natura ambivalente-obbligatoria nei confronti del sindacato e normativa sul piano dell’amministrazione del rapporto individuale di lavoro-e conseguentemente la loro violazione da parte del singolo datore di lavoro per un verso fonda una sua responsabilità contrattuale verso il sindacato e per altro verso determina l’invalidità del provvedimento nel quale l’esercizio del potere si è concentrato.
13.GLI ALTRI TIPI DI CONTRATTO COLLETTIVO. I CONTRATTI CORPORATIVI RIMASTI IN VIGORE.
Il D.Lgs. Lgt. 23 novembre 1944, n.369, nell’abrogare il sistema corporativo, dispose la permanenza
“in vigore, salvo le successive modifiche, delle norme contenute nei contratti collettivi” all’epoca vigenti. La giurisprudenza ha riferito l’inciso dell’art 43 anche alle modifiche (pur se peggiorative) introdotte dai contratti collettivi privatistici: diversamente, si argomentò, l’inciso non avrebbe avuto alcun senso, dovendosi ritenere scontata, per i principi generali, la libera modificabilità del contratto corporativo da parte d’un contratto successivo dello stesso rango.
La giurisprudenza ha poi comunemente invocato il principio secondo cui, quando ad una regolamentazione di carattere generale ne segue un’altra di carattere parimenti generale, questa si sostituisce alla precedente, e ha quindi ritenuto che la disciplina del contratto corporativo deve intendersi completamente sostituita da quella del successivo contratto collettivo di diritto comune, ogni qualvolta esso è applicabile allo specifico rapporto di lavoro.
L’orientamento giurisprudenziale ha d’altra parte ricevuto l’autorevole avallo della Corte Costituzionale, la quale ha affermato che tali contratti corporativi non avevano nell’ordinamento originario e tanto meno avevano acquistato in forza dell’art 43, la qualità di “atti aventi forza di legge”, escludendo così in radice la loro superiorità di rango rispetto ai contratti collettivi di diritto comune. Malgrado il richiamato orientamento delle Corte Costituzionale, la giurisprudenza ha continuato a considerare i contratti corporativi rimasti in vigore alla stregua di fonti del diritto in senso proprio.
14.I CONTRATTI COLLETTIVI “RECEPITI” IN DECRETO.
Acquisita ormai l’inattuabilità dell’art 39 Cost e l’irrealizzabilità quindi del modello di contrattazione con efficacia generale ivi prefigurato con la legge 14 luglio 1959 n.741 il legislatore delegò il Governo “ad emanare norme giuridiche, aventi forza di legge, al fine di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo nei confronti di tutti gli appartenenti ad una medesima categoria” e stabilì che “nella emanazione delle norme il
Governo dovrà uniformarsi alle clausole dei singoli accordi economici e contratti collettivi, stipulati dalle associazioni sindacali anteriormente all’entrata in vigore della presente legge”. Con l’art. 1 della legge 1 ottobre 1960 n. 1027 fu poi consentito al Governo di “recepire” anche i contratti stipulati nei dieci messi successivi all’entrata in vigore della legge del 1959.
La Corte riconobbe che il legislatore con la legge n.741 aveva realmente inteso conferire efficacia generale ai contratti collettivi con forme e procedimento diverse da quelli previsti dall’art.39 e sottolineò al tempo stesso che una legge la quale “cercasse di conseguire questo medesimo risultato della dilatazione ed estensione a tutti gli appartenenti alla categoria alla quale il contratto si riferisce , in maniera diversa da quella stabilita dal precetto costituzionale, sarebbe palesemente illegittima”.
Valorizzando il dato storico dell’inattuazione di tale precetto, la Corte ritenne che la legge si sottraesse al contrasto con l’art.39 in ragione del suo significato e funzione di legge transitoria, provvisoria ed eccezionale, rivolta a regolare una situazione passata e a tutelare l’interesse pubblico della parità di trattamento dei lavoratori e dei datori di lavoro.
La Corte ritenne invece che non si sottraesse al contrasto con l’articolo 39 e dichiarò quindi illegittimo l’articolo 1 della legge del 1960: “ anche una sola reiterazione della delega toglie alla legge i caratteri della transitorietà e dell’eccezionalità… e finisce col sostituire al sistema costituzionale un altro sistema arbitrariamente costruito dal registratore e pertanto illegittimo”. La decisione della Corte ha così travolto tutti i decreti emanati in base all’art. 1 della legge del 1960.
La legge del 1959 e i decreti emanati in sua attuazione hanno sollevato numerose questioni interpretative.
- a) La Corte Costituzionale ha chiarito che rientra nei compiti del giudice ordinario individuare i concreti fini della categoria, cui la legge delegata si riferisce, desumendoli dalla contrattazione collettiva e con riferimento alle associazioni stipulanti. Obiettivo della legge delega è quello di rendere applicabili i contratti collettivi al di là della cerchia degli associati, e non quello di allargare l’ambito della categoria di riferimento; e poi perché risulterebbe violata la regola costituzionale che garantisce la libertà di organizzazione sindacale. La giurisprudenza ordinaria si è poi trovata ad affrontare due ordini di questioni particolarmente impegnative, afferenti l’uno alla “natura” dei contratti collettivi recepiti e dei relativi decreti delegati e l’altro ai rapporti tra questi e la successiva contrattazione collettiva di diritto comune.
- b) Con riguardo al primo ordine di questioni la giurisprudenza e la Corte di Cassazione hanno adottato soluzioni diverse a seconda dei diversi problemi volta a volta in evidenza. Così, attribuendo prevalenza al dato “sostanziale” del contenuto (un contratto) rispetto al dato “formale” (un decreto), la giurisprudenza ha affermato che “l’estensione erga omnes dell’obbligatorietà del contratto collettivo lascia immutata la natura propria dei patti contrattuali estesi e non vale come diretta legiferazione”.
Di conseguenza il contratto collettivo recepito (alias, il decreto delegato):
– deve essere allegato e prodotto in giudizio da chi lo invoca
– non è soggetto alla regola dell’uguaglianza sancita dall’articolo 3, 1° comma, Cost.
– il contrasto fra le sue clausole e le disposizioni della Costituzione può essere direttamente rilevato dal giudice ordinario
– in particolare, il giudice ordinario può direttamente rilevare il sopravvenuto tra i minimi retributivi in esso previsti e l’articolo 36 Cost., al fine di disapplicarli e di applicare in loro vece i minimi retributivi previsti dai successivi contratti collettivi di diritto comune.
Per converso, la giurisprudenza continua a considerare i decreti legislativi come “atti aventi forza di legge” allorché afferma che vanno interpretati sulla base dei canoni fissati dall’art. 12 disp. Prel. Cod. civ. per l’interpretazione della legge (e non di quelli fissati dagli art 1362 e seguenti per l’interpretazione dei contratti) e che l’interpretazione operata dal giudice di merito è direttamente censurabile in cassazione per “violazione o falsa applicazione di norme di diritto”.
c)Inizialmente la giurisprudenza ha fatto un uso rigoroso del 3° comma dell’art 7 della legge n. 741, secondo cui alle norme contenute nei decreti legislativi “si può derogare, sia con accordi o contratti collettivi sia con contratti individuali, soltanto a favore dei lavoratori”, ed ha quindi operato il raffronto fra decreti e contratti collettivi di diritto comune con riferimento alle singole clausole.
In seguito si è andata invece manifestando la tendenza a negare che “l’estensione erga omnes abbia mutato la natura precettiva dei contratti” per trattare la successione tra decreti e contratti collettivi privatistici alla stregua della successione nel tempo tra questi ultimi.
Quando non si è sentita di accantonare la previsione del 3° comma dell’art 7 della legge n. 741, la giurisprudenza ha comunque manifestato la propensione a svalutare i limiti da esso derivanti all’autonomia collettiva, operando il raffronto tra decreti e contratti privatistici con riferimento alla complessiva disciplina di ciascun istituto (secondo il criterio comunemente utilizzato sul piano dei rapporti tra contratti collettivi e contratti individuali), se non addirittura con riferimento al loro contenuto globale.
Il motivo addotto per quest’ultima scelta è che “nell’attuale economico sociale, i contratti collettivi che vengono di volta in volta successivamente stipulati sono, nel complesso delle loro rispettive disposizioni , progressivamente più favorevoli per i lavoratori”.
15.CONTRATTO COLLETTIVO E USI AZIENDALI.
Per completezza del quadro relativo all’intreccio delle “fonti” occorre considerare anche il profilo delle correlazioni tra il contatto collettivo e i cosiddetti usi aziendali, cioè i comportamenti tenuti di fatto dal datore di lavoro con apprezzabile continuità o reiterazione nei riguardi dell’intero personale o di settori più o meno ampi dello stesso.
Qualora le prassi aziendali venissero ricondotte ai cd. usi normativi, costituenti fonti del diritto in senso proprio ex art 1 e 8, 1° comma, disp. Prel. Cod. civ., si dovrebbe riconoscere loro un rango sovraordinato rispetto al contratti collettivi privatistici. Varrebbero quindi le considerazioni svolte a proposito del rapporto tra questi ultimi e la legge, non avendo possibile invocare gli articoli 8, 2° comma e 2078 c.c., che attribuiscono agli usi un rango sottordinato rispetto ai contatti corporativi. Tuttavia la giurisprudenza ha dovuto prendere atto che ben difficilmente una prassi aziendale può rispondere ai requisiti, assai rigorosi, dell’uso normativo, per il quale si richiede tradizionalmente una pratica uniforme e costante tenuta per lungo tempo dalla generalità degli interessati nella convinzione che essa sia obbligatoria in quanto conforme ad una regola giuridica.
La giurisprudenza ha allora cominciato a ricondurre i comportamenti stabilmente tenuti dal datore di lavoro nei confronti di tutti i propri dipendenti o d’una cerchia di essi ai cosiddetti usi contrattuali ed a spiegare la loro efficacia sui rapporti di lavoro riguardandoli ora ad un tempo ora alternativamente come proposte contrattuali ai singoli lavoratori da questi tacitamente accettate e come clausole d’uso ai sensi degli art. 1340 e 1368 del codice civile.
È così divenuta ricorrente l’affermazione che gli usi si inscrivono nei contratti di lavoro alla stregua dei patti individuali, e quindi per un verso possono derogare solo in melius ai contratti collettivi, per altro verso “rimango insensibili alle modificazioni delle pattuizioni collettive anche aziendali” (abbiamo visto infatti che il contratto collettivo opera rispetto a quello individuale come fonte esterna, inderogabile in peius, e può quindi incidere su di esso solo indirettamente, attraverso le modificazioni del proprio contenuto).
L’impostazione ormai corrente è per la verità assai fragile nel suo fondamento giuridico giacché da un lato le clausole d’uso ex art. 1340 e 1368 cod. civ. dovrebbero, secondo l’opinione tradizionale, presentare i medesimi requisiti strutturali dell’uso normativo, e dall’altro lato la loro riconduzione allo schema dei patti taciti individuali on riesce a spiegarne l’efficacia nei confronti dei lavoratori assunti dopo la formazione della prassi o dei lavoratori che non ne hanno beneficiato.
Non a caso, i più recenti orientamenti della Suprema Corte dichiarano favorevoli al recupero degli “effetti collettivi” degli usi aziendali: questi ultimi, “concorrendo alla regolamentazione della vita aziendale in forza del comportamento e della volontà delle parti, si pongono o come elementi integrativi del fatto aziendale esistente, oppure come elementi costitutivi di un patto autonomo”; e quindi, “agendo sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale”, devono ritenersi governati “dal principio della successione temporale di più accordi aziendali”.
Siffatta ricostruzione consente finalmente di ammettere la possibilità di disposizione o di deroga dell’uso aziendale, anche in senso peggiorativo, da parte di successivi accordi aziendali.
Alla medesima logica possono essere ricondotti i cosiddetti regolamenti interni, adottati unilateralmente dal datore di lavoro. Essi infatti, con l’applicazione, acquistano carattere pattizio e nei rapporti con le vicende delle contrattazioni collettive sono quindi assimilabili agli usi.
Alessandro Saggini
(LucidaMente, anno XV, n. 174, giugno 2020)