L’inutile, assurda, dannosa guerra dei sessi e qualche modesta proposta
Inizio con tre significative citazioni: La prima: «Che cosa può trarre di positivo un maschio dalla arrogante presunzione di appartenere a una casta superiore soltanto perché è nato maschio? La sua è una mutilazione altrettanto catastrofica di quella della bambina persuasa della sua inferiorità per il fatto stesso di appartenere al suo sesso. Il suo sviluppo come individuo ne viene deformato e la sua personalità impoverita, a scapito della loro vita in comune» (Elena Gianini Belotti, Dalla parte delle bambine, Feltrinelli, Milano, 1973, p. 9).
La seconda: «Chi ci assicura che la condizione di preminenza storicamente assegnata al maschio debba necessariamente riuscire congeniale a tutti i maschi?» (Carla Ravaioli, Maschio per obbligo, Bompiani, Milano, 1973, p. 9).
L’ultima: «Insistendo sull’immagine della donna oppressa e indifesa di fronte all’oppressore di sempre, si perde ogni credito presso le giovani generazioni che da questo orecchio non ci sentono» (Elisabeth Badinter, La strada degli errori, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 13).
Salterò la discussione di alcuni punti, scontati per donne e uomini non dementi, e mi limiterò semplicemente a elencarli.
1. L’ovvietà dell’uguaglianza delle capacità, della dignità, dei diritti fra uomini e donne.
2. L’ovvietà delle differenze biologiche fra uomini e donne.
3. L’ovvietà delle quasi irrilevanti differenze psicologiche fra uomini e donne (nonostante le differenze culturalmente indotte).
4. L’ovvietà del pari diritto allo studio, al lavoro, all’accesso a ruoli di responsabilità sociali di uomini e donne.
5. L’ovvietà del fatto che le rotture di palle (pulizie della casa, ecc.) non sono state attribuite dalla volontà divina alla donna.
6. L’ovvietà del fatto che purtroppo i primi cinque punti sono tutt’altro che scontati per molti uomini e anche per molte donne.
Ora passiamo alle questioni interessanti. Il sesto punto di questo elenco, cioè il fatto che l’uguaglianza nei diritti e nella dignità fra uomini e donne non sia un’ovvietà per molti uomini e per molte donne, costituisce da sempre un grave problema, cui molte donne (per fortuna, non tutte) hanno dato risposta cercando di “unire le energie femminili” contro il “potere maschile”. Così è nato il femminismo, che è sostanzialmente una trasposizione della lotta di classe a livello del rapporto fra i sessi. In questa trasposizione c’è però una forzatura che, per via di pregiudizi atavici (maschili e femminili), è stata rilevata solo da poche voci (maschili e femminili) fuori dal coro.
Nei giochi a somma zero, più una parte vince, più l’altra parte perde. Nei giochi complessi, in cui sono in ballo anche aspetti qualitativi, emotivi, sessuali, sociali, non è affatto scontato che ci siano vincitori e vinti anche se spesso torna comodo crederlo. Juliet Mitchell, ad esempio, ha scritto molti anni fa che «anche gli uomini (pur con difficoltà) possono rinunciare ai loro privilegi patriarcali e diventare femministi» (Psychonalysis and Feminism, 1974, Pelican Books, 1975, p. 415). In questa prospettiva gli uomini sono detentori di privilegi, ma possono “riabilitarsi” rinunciando a tali privilegi e schierandosi con le loro vittime. Cercherò di chiarire i motivi per cui ho sempre rinunciato a cogliere questa “opportunità” e per cui non aspiro a essere accolto nel club delle donne vittime unite agli uomini pentiti.
Quando in una relazione umana un soggetto è prevaricante e la vittima “non riesce” a sottrarsi, quest’ultima sta accumulando vantaggi meno evidenti, ma altrettanto significativi. Se la vittima resta nel ruolo di vittima e non ne trae dei vantaggi è una persona con un cervello da gallina e ciò si verifica molto raramente. Per comprendere questa cosa non occorre scomodare menti eccelse della psicologia sociale, ma basta leggere Paperino, il quale non è un idiota e si mantiene vivo e vegeto, pur venendo frustrato e umiliato ogni volta da Paperone (il quale in realtà, pur sfruttandolo in mille modi, fa una vita di merda).
Ciò che mi disturba del femminismo non è la missione dichiarata (il miglioramento della qualità della vita delle donne), dato che io sono da sempre favorevole al miglioramento della qualità della vita di tutti, e quindi anche delle donne. Ciò che mi disturba è piuttosto l’implicita svalutazione delle donne attuata dal femminismo. L’idea che le donne siano da sempre così sciocche da farsi calpestare, senza trarre alcun vantaggio da una situazione tanto ingiusta, non mi è mai andata giù. Come pure l’idea di una loro liberazione dovuta all’opera di donne intellettuali, dedite all’autocoscienza di gruppo e sostenitrici dell’orgasmo garantito dal dito (quello, però, è l’acme!).
Logica vuole, per chi realmente crede all’uguaglianza delle risorse interiori maschili e femminili, che se le donne hanno accettato per secoli tante (indiscutibili) umiliazioni, si siano procurate sempre contropartite e rivincite. Insomma, vantaggi disconosciuti, forse inconsapevolmente perseguiti, ma voluti e ottenuti. Vantaggi sicuramente illusori (come l’orgoglio “maschile”), ma voluti e ottenuti. In questo quadro di riferimento (mio, di poche donne e di pochi uomini abbastanza audaci da non dichiararsi femministi), un’umiliazione inflitta e un’umiliazione restituita non fanno un pareggio, ma fanno una relazione di merda. In questo quadro c’è un mucchio di cose da chiarire e da fare, per modificare i due lati della feroce e stupida cultura “patriarcale”. Tuttavia il rimedio non sta nell’ignorare il ruolo attivo svolto dalle “vittime” in tale cultura. Per ora aggiungo quindi ai sei punti che costituiscono le ovvietà dell’elenco iniziale, i primi due punti di un secondo elenco, costituito dalle non ovvietà.
In primo luogo le donne non sono stupide e non sono mai state più stupide degli uomini, anche se è parso a loro e agli uomini che fossero sottomesse e incapaci di rendersene conto o di modificare la loro condizione. In secondo luogo, le “denunce” femministe-vittimistiche della storica sottomissione delle donne al potere maschile costituiscono la più recente manifestazione (in buona fede) della svalutazione delle capacità, delle potenzialità e della dignità delle donne. Aggiungo qualche nota al secondo punto. Oltre ad implicare che le donne non abbiano mai avuto cervello, il femminismo afferma (implicitamente) che le donne, in quanto vittime e incapaci, non siano (e non siano state distruttive) e prevaricanti come gli uomini.
In pratica il femminismo ha “giustificato” le donne, assolvendole da qualsiasi responsabilità. Facendo così ha reso più difficile la comprensione del reale, tragico e grave problema costituito dalla distruttività sociale (maschile e femminile) consolidatasi nei secoli. Di fatto, ha ostacolato il già difficile processo di cambiamento che è necessario per il bene delle donne stesse, degli uomini e dei bambini. Infatti, uomini e donne non nascono con una tendenza naturale a farsi del male o a fare del male agli altri. Sviluppano le loro tendenze distruttive proprio per “adattarsi”, fin dalla più tenera età, a un mondo che non rispetta i loro bisogni.
Proprio per la stima che è dovuta alle donne occorre riconoscere che da sempre hanno reagito agli uomini con pari violenza. Li hanno sminuiti “occupandosi di loro” come se fossero dei minorati, hanno usato il loro fascino per sedurli e poi per frustrarli una volta divenute madri, hanno ceduto il terreno sul piano pubblico, ma nel privato si sono plasmate i figli a loro uso e consumo (psicologico). Quest’ultimo punto ha dei risvolti che non si capiscono quando si usa il linguaggio degli psicologi (la “iperprotettività”). Non si tratta di protettività “eccessiva”, ma di voracità e di possessività. Come mai i maschi sono (quasi) tutti incazzati con i padri? Come mai sociologi e psicologi sono sempre intenti a blaterare sulla società patriarcale, sull’arroganza dei maschi, sull’incapacità degli uomini di occuparsi dei figli? Si dirà: perché i maschi sono stronzi! Beh, se fosse così, i maschietti sarebbero attaccatissimi ai loro padri per imitarli e diventare “stronzi e felici”! I figli sbaverebbero per prendere il posto “dominante” dei loro padri, così “toghi”, così “potenti”. E invece i ragazzini sono sempre preoccupati di non diventare stronzi come i padri e si ritrovano a “trovare se stessi” in una “specificità” e “autonomia” (molto apprezzata dalle madri!) che li porta a passare la vita a dimostrare (alle donne) che valgono qualcosa (cioè più del padre). E, paradossalmente, proprio in questo processo di negazione della loro appartenenza al mondo dei padri, diventano stupidamente competitivi con gli uomini e seduttivi e rabbiosi con le donne.
Diventano maschilisti per essere “maschi migliori dei maschi” ed essere… finalmente amati dalle donne. E riproducono la loro storia famigliare e quella sociale, sposando una ragazza tanto brava, fragile e da proteggere, per poi annoiarsi a morte, per poi illudersi di trovare in un ruolo sociale o lavorativo chissà quale “realizzazione”, per collocarsi infine ai margini della famigliola felice (disprezzati da moglie e figli). Questa non è una legge generale, dato che non tutti gli uomini sono così, come non tutte le donne sono cosà. È la descrizione di un fenomeno diffuso i cui risvolti inquinano in qualche misura il clima generale in cui uomini e donne cercano di diventare “qualcosa” dopo aver rinunciato a diventare ciò che sono davvero. Anche le donne imparano nella loro infanzia, nella loro famiglia, a diventare “donne come le loro madri” proprio vedendo una conflittualità sotterranea o violenta in cui le donne con le loro lacrime (fasulle) e i loro bronci dimostrano ogni giorno che meritano comprensione e appoggio e che sarebbero tradite dalle figlie se queste respingessero la violenza di entrambi i genitori e soprattutto se mantenessero un briciolo di rispetto per i loro padri.
Qualche lettrice obietterà che se gli uomini si lasciano trattare da handicappati è per un loro vantaggio (ad esempio, schivare il lavoro domestico o anche impegni più gravosi). Verissimo! E’ ciò che penso io, infatti, sia a proposito dei “poveri maschi”, sia a proposito delle “povere femmine”. In realtà ciò che è in atto è una tragica guerra senza vincitori in cui maschi e femmine, anziché incontrarsi si fanno del male, si lamentano e fanno ritorsioni. I maschi sembrano “dominanti” e questo li gratifica (illusoriamente), dato che rinunciano ad essere maschi e le donne sembrano vittime e questo le gratifica (illusoriamente), dato che rinunciano ad essere femmine. Solo i figli subiscono davvero questa follia a due (che riproduce la follia sociale). C’è una bellezza davvero luminosa in una donna semplicemente femminile e in un uomo semplicemente maschile, che viene sepolta da tonnellate di lagne e di arroganza. Il motivo è a monte, al di là delle chiacchiere sul genere o sulla “natura” dei generi o su balle tanto care a chi ama “scavare”. Ma quale motivo? Se non è colpa dei maschi cattivi, di chi è la colpa? Con questa domanda arriviamo al terzo punto del secondo elenco (quello delle cose non ovvie).
Terzo: non è colpa di nessuno. Le persone, correndo a tutta birra per meritare la medaglia di oca giuliva (o santarellina) dell’anno, oppure di maschione (o bravo ragazzo) dell’anno, evitano qualcosa. Tutti evitano la possibilità di realizzare incontri autentici, da persona a persona, e di sentire la vulnerabilità che ogni autentico incontro fra soggetti comporta. Una vulnerabilità che, se tutto va male, diventa un dolore più profondo di quello che nei rapporti superficiali può essere “denunciato” (con rabbia, pretese e rivendicazioni). Il dolore è bandito dai gruppi di “autocoscienza femminista” o dalle chiacchiere dei “maschi da bar” o dalle rubriche “il parere dello psicologo” o dai sermoni sulla famiglia. Tutti preferiscono rapporti basati sui ruoli, anziché sulla scoperta di un’altra persona, perché i conflitti di ruolo rendono possibile la polemica, mentre i rapporti personali rendono possibili solo due commenti: «grazie di cuore»; oppure: «mi dispiace davvero».
Non è questione di cultura o di erudizione. La superficialità dei rapporti fra i sessi non è riservata alle persone poco colte. Anche i migliori romanzi (intendo quelli scritti con talento letterario) raccontano stronzate sulle “pene d’amore” e (con le migliori intenzioni di “esplorare l’animo umano”) non più “profonde” di quelle di cui si spettegola dal barbiere o dalla parrucchiera. Amori “veri” e profondissimi che finiscono sempre in tradimenti, sensi di colpa, vendette, suicidi, depressioni e smarrimenti. Pochi romanzieri o cineasti osano raccontare storie d’amore in cui le persone si incontrano con desiderio e passione.
Viviamo in un mondo di pazzi in cui le cose normali sono il nazismo tedesco, lo stalinismo russo, il maccartismo americano, in cui Andreotti è più famoso di Einstein (almeno in Italia), in cui da due secoli stiamo devastando l’ecosistema e da soli dieci anni qualcuno se n’è accorto, e in cui in una parte del globo terrestre si muore di fame e in un’altra si fanno sprechi per mantenere livelli accettabili di produttività, e così via. In questo mondo, è abbastanza comprensibile che i rapporti fra maschi e femmine siano sempre stati un po’ incasinati. Tuttavia, se ci togliamo dal groppone il femminismo (e tanti altri “ismi”, ovviamente), possiamo ragionare un po’ sulla violenza e sulla paura; su “robe” che tolgono la gioia di vivere, di giocare, di oziare, di far sesso e anche di fare all’amore. Ciò che le persone temono è proprio l’eventualità di dire la verità su ciò che sentono e desiderano. Dire “ti amo” e verificare che magari non arriva una risposta “congruente” è più rischioso che dire “ti amo tanto, tanto, tantissimo” dopo aver dimostrato di essere speciali, oppure dopo aver dimostrato di soffrire tanto o di aver tanti diritti, ecc. È anche più rischioso che dire «vediamo se riesci ad amarmi come riesco io!» o «non ho bisogno di nessuno» o «tu hai bisogno di me» e così via.
Postilla filosofico linguistica. I pastrocchi intellettuali a volte si manifestano in pastrocchi linguistici. Esemplare è il caso della polarità egoismo/altruismo che a differenza di altre (liberismo/socialismo, gioventù/vecchiaia, maschile/femminile, alto/basso, bello/brutto, ecc.) non indicano due fatti o qualità opposti o diversi, ma vietano di mettere a fuoco i concetti realmente opposti ad ognuno dei due in questione. “Egoismo” non significa “aver cura di sé” in opposizione ad “altruismo” inteso come “aver cura degli altri”. Il primo termine significa “essere un cattivone che pensa solo a sé”, mentre il secondo significa “essere una persona buona che si dedica agli altri”. L’apparente opposizione blocca l’idea che qualcuno, senza essere uno stronzo, abbia cura di sé o che possa essere manipolativo dedicandosi agli altri. Occorrono perifrasi complicate per delimitare questi due campi di possibilità perché (nella logica di una cultura negatrice del piacere di vivere) la cura degli altri non può essere un’estensione naturale del “volersi bene”, ma deve essere un sacrificio eroico e solo in quanto tale meritevole di apprezzamento. Nessuno ci pensa, ma tale uso delle (false) opposizioni è ipnotico, paralizzante, funziona come una serratura che impedisce l’apertura di una porta. Giustamente Thomas Nagel stronca l’abracadabra dell’altruismo: «Lo stesso vale per l’idea che aiutare gli altri è la sola cosa che dà veramente significato alla vita. Se la vita di nessuno ha in sé qualche significato, come può acquisirlo tramite la dedizione alle vite insignificanti degli altri?» (Uno sguardo da nessun luogo, 1986, Mondadori, Milano, 1988, pp. 270-271).
La (pseudo)polarità semantica maschilismo/femminismo è dello stesso tipo. Un “maschilista” è un figlio di puttana che pensa ai suoi fottuti bisogni e si gode tanti privilegi a scapito delle povere donne oppresse, ma una “femminista” non è una figlia di puttana, ecc., dato che è una donna matura e consapevole che rivendica i suoi sacrosanti diritti. Io non sto suggerendo di dare una valenza positiva al termine “maschilismo” e una valenza negativa al termine “femminismo”, perché rovesciando la (pseudo)polarità produrremmo lo stesso equivoco. Ciò che voglio sottolineare è la valenza ipnotica e paralizzante della (pseudo)opposizione in questione che denota una rigidità mentale basilare all’origine della “rivoluzione femminista”, a partire dalla quale la cultura sessista del passato (denominata “patriarcale”) è stata inquadrata in una logica vittimistica e manichea.
Mentre la manipolazione linguistica della polarità egoismo/altruismo è immodificabile, a meno che non maturi una cultura di tipo etico radicalmente alternativa rispetto a quella occidentale/borghese/”cristiana”, la manipolazione linguistica che si esprime nella polarità maschilismo femminismo è più facilmente superabile (“più facilmente” che nell’altro caso, ma non proprio “facilmente”): basta che si cominci ad evidenziare che il femminismo, al di là del suo innegabile valore storico, di rottura, è in realtà una concezione solo apparentemente positiva o costruttiva, né più, né meno del maschilismo. Come i maschilisti tutti contenti del loro ruolo “dominante” in realtà vivono nel terrore della loro fragilità e si bruciano anche il piacere di un incontro con le femmine, così le femministe, tutte contente di affrancarsi dall’oppressione dei maschi cattivi, si intossicano con la loro rabbia e si precludono il piacere di un incontro con i maschi (almeno con quelli non dementi). Occorrerebbe una nuova parola per definire un incontro non sessista fra i sessi. Nell’attesa, un uso più frequente dei termini “dignità”, “incontro”, “libertà” potrebbe essere d’aiuto.
Si obietterà, tuttavia, che non sono certo moltissimi i maschi con cui le donne “libere” (affrancate dal maschilismo e dal femminismo) potrebbero godere in pace una buona intimità. Verissimo: ma quante sono le donne con cui l’intimità può essere più esaltante di un bel tuffo in una piscina senza acqua? Il problema è un altro: sia gli uomini ottusi di “vecchio stampo” (e pure quei “bravi ragazzi” convertitisi al femminismo), sia le donne “casa, chiesa, tortellini e tv” o le donne “con una coscienza femminista”, sono persone infelici e non consapevoli della loro infelicità e nemmeno dell’infelicità che “regalano” alle/ai loro partner. Incontri radicalmente nuovi basati sulla curiosità, il desiderio e l’amore sono abbastanza rari e resteranno rari per molto tempo. Vale però la pena cercare fin da ora la felicità possibile, allentando le proprie chiusure mentali e invitando le persone che amiamo a fare altrettanto.
La via d’uscita dai ruoli tradizionali è nella rinuncia ai ruoli e non nell’assunzione di nuovi ruoli. Sia il nuovo ruolo del maschio “pentito” (che conferma l’idea che gli uomini fossero cattivi anziché coglioni), sia il nuovo ruolo della donna “liberata” (che conferma l’idea che le donne fossero vittime tonte anziché responsabili del loro vittimismo) sono nuove camicie di forza. Togliersi la camicia di forza è d’obbligo se si vuol nuotare e ciò vale per i maschietti e per le femminucce.
Postilla sociologico-politica. La cosa più bella del pregevole documentario Il corpo delle donne (di Lorella Zanardo), che si può vedere visitando il sito web http://www.ilcorpodelledonne.net/, sta proprio nel fatto che lo svilimento del corpo femminile nei programmi televisivi “popolari” (soprattutto in Italia) non è documentato dall’autrice in una logica manichea. Ciò che trasmette il filmato non è la voglia di spaccare la testa a chi “opprime” quelle povere donne, ma la profonda compassione per una cultura di massa in cui le donne sembrano rassegnate ad aspirare al ruolo di oche “visibili” e in cui gli uomini sembrano rassegnati ad aspirare al ruolo di idioti altrettanto “visibili”. Io andrei oltre, ed evidenzierei che, se spettacoli né intelligenti, né divertenti, né erotici, ma solo avvilenti sono seguiti da tante persone, è in atto un basilare appiattimento della qualità della dimensione emotiva, sessuale e sociale di tutte le persone (donne comprese). Chiedersi se i marketing men che confezionano questi prodotti causino la stupidità di massa o se “rispondano” a una stupidità di massa preesistente è inquietante. Io risponderei che la stupidità o follia collettiva è preesistente. Sicuramente l’esordio delle tv commerciali in Italia (da Drive in, in poi), ha accelerato un’involuzione, ma, se ha trovato consenso, anziché irritazione, evidentemente la cultura bigotta/conservatrice/maschilista era un terreno fertile.
Che fare? Occorre gettarsi alle spalle l’idea maschilista secondo cui le donne sono inferiori e gettarsi alle spalle l’idea femminista secondo cui le donne sono vittime (e quindi inferiori). La Zanardo non si sbilancia fino a questa posizione radicale, ma sembra avere l’intelligenza e la sensibilità per orientare il dibattito in quella direzione. Potrebbe anche ripensare il suo blog come Il corpo e il cervello delle donne e degli uomini. Potrebbe fare questo prima dell’apertura (da parte di qualche maschietto “pentito”) di un blog Il corpo degli uomini con dichiarazioni di colpevolezza e lagne sull’oppressione “specificamente” maschile. Il tutto, in attesa di un sito sul corpo degli extracomunitari, sul corpo dei bambini (diviso in due sezioni per i due sessi) e sul corpo dei vecchi (sempre in due sezioni).
Postilla sociologico-aritmetica. Che fare nel frattempo? (cioè prima del raggiungimento di una reale parità fra donne e uomini nell’ambito sociale). Tutto, tranne le quote rosa. Le rivoluzionarie della “quantità”, le teoriche del “potere da occupare con le percentuali garantite” hanno avuto ciò che si meritavano: un governo pieno di donne intelligentissime, preparatissime, assolutamente dedite alla liberazione dal maschilismo e collocate nei loro ministeri da un uomo che trasuda sensibilità per il mondo femminile e autentica virilità. So che getto sale su una ferita, ma l’idea di stabilire per legge e in termini numerici una parità non ancora realizzata è geniale come abolire il cancro per legge, multando i malati. E, poi, perché il 40% e non il 50%? Forse perché le rivoluzionarie delle quote rosa hanno paura di disturbare troppo? O forse perché le donne sono “quasi uguali” agli uomini? Quando vengono eliminati nella realtà gli ostacoli alle possibilità di emancipazione, le donne acquisiscono sempre le competenze necessarie e sfruttano realmente le occasioni che risultano utilizzabili. Se si lottasse per cose di questo tipo (ad esempio garantendo per legge un anno intero di permesso di maternità senza che vengano a decadere le possibilità di avanzamento in ambito lavorativo, oppure equiparando ai corsi di perfezionamento ai fini della carriera gli anni dedicati alla cura dei neonati, ecc.) le disparità reali fra i sessi si attenuerebbero.
Ciò che può cambiare davvero le cose è solo un impegno per una reale emancipazione di tutte le persone, e per un abbattimento delle ingiustizie che colpiscono solo le donne, di quelle che colpiscono solo gli uomini (cfr. il meraviglioso Billy Elliot di Stephen Daldry), di quelle che colpiscono solo gli extracomunitari, solo i bambini, solo i vecchi, e così via. Occorre una lotta contro tutti i pregiudizi, contro tutte le violenze ingiustificate e contro tutte le illusioni. Una lotta per l’amore verso la vita. I cambiamenti profondi (se mai verranno realizzati) porteranno necessariamente ad avere un numero di ministri femmine o di docenti universitari femmine o di generali femmine (se proprio ci vorremo tenere gli eserciti) più o meno pari a quelli di sesso maschile.
(Da Tempovissuto, per gentile concessione della rivista)
L’immagine: particolare di surreale05, fotografia di Giovanni Guadagnoli (www.giovanniguadagnoli.it), per gentile concessione dell’artista.
Gianfranco Ravaglia
(Lucidamente, anno VI, n. 61, gennaio 2011)
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