Nel saggio “Che cos’è la guerra?” (DeriveApprodi) Andrea Pannone spiega come le élite superino le crisi economiche e accrescano i profitti grazie all’aumento delle spese militari nonché alle “bolle speculative” gonfiate dalle lobby finanziarie
Eric Hobsbawn ha giustamente sostenuto che il Novecento è stato il secolo più cruento della storia. Lungo il suo corso, infatti, sono stati «uccisi o lasciati morire per decisione dell’uomo tanti esseri umani quanti mai prima» (Il secolo breve, Rizzoli). Anche il Nuovo millennio, tuttavia, è stato contrassegnato da contese militari assai cruente (Afghanistan, Congo, Darfur, Iraq, Libia, Nagorno-Karabakh, Ossezia del Sud, Palestina, Ucraina, Yemen, ecc.).
La logica dei conflitti capitalistici
L’anno scorso, ad esempio, sono state combattute ben 31 guerre che hanno provocato oltre 33.000 vittime civili (vedi Giornata nazionale delle vittime civili dei conflitti nel mondo: il primo febbraio 200 comuni di tutta Italia si tingono di blu). Le cause dell’odierno bellicismo sono state indagate dall’economista Andrea Pannone nel saggio Che cos’è la guerra? La logica dei conflitti capitalistici tra XX e XXI secolo (DeriveApprodi, Bologna 2023, pp. 160, € 13,00), nel quale ha esaminato il periodo storico compreso tra il 1945 e 2023 «con particolare riferimento alle vicende degli ultimi 20-25 anni». L’autore ritiene obsolete le interpretazioni dei marxisti novecenteschi (Lenin, Rosa Luxemburg, ecc.) che spiegavano le guerre imperialistiche come «effetto dell’esportazione di capitale in eccesso da parte di economie nazionali dominate da grandi monopoli».
La corsa al riarmo degli odierni stati capitalistici, invece, è dovuta principalmente alla necessità di sopperire all’«eccesso di capacità», cioè alla cronica differenza tra la produzione di merci potenziale e quella effettiva che può determinare «prezzi più bassi e profitti più bassi», nonché «costi più elevati e prodotti di qualità inferiore» (vedi Capacità in eccesso una barriera alla crescita economica).
Dal capitalismo di stato al neoliberismo
L’analisi di Pannone parte dalla Seconda guerra mondiale, che fu determinata soprattutto dalla necessità di superare la grave recessione iniziata nel 1929, «prima con un aumento delle spese per lo sforzo bellico, poi con gli investimenti per la ricostruzione post-bellica». La corsa agli armamenti proseguì durante la Guerra fredda, quando l’economia capitalistica attraversò una fase di crescita, dovuta agli investimenti statali e allo sviluppo del welfare state che consentirono «il sostegno della domanda aggregata» ed «elevati livelli di consumo di massa».
Il “capitalismo di stato”, tuttavia, entrò in crisi nel 1971 con la fine della convertibilità del dollaro in oro voluta da Richard Nixon, che provocò la fluttuazione delle valute mondiali e notevoli trasformazioni in campo finanziario (liberalizzazione dei mercati, forti investimenti borsistici, speculazioni nel sistema dei cambi, ecc.). La crisi petrolifera del 1973-1974 innescò la «stagflazione economica» che favorì la ristrutturazione del sistema produttivo secondo i precetti neoliberisti.
Le trasformazioni economiche
Negli anni Ottanta e Novanta si adottarono nuove tecniche di lavoro (produzione snella e in linea, automazione, flessibilità, ecc.) e di commercializzazione delle merci. Furono, infatti, introdotte le «tecnologie dell’informazione e della comunicazione», che consentirono alle imprese di conoscere i gusti dei consumatori e produrre solo «quello che il cliente vuole comprare». Si diffuse, inoltre, la «delocalizzazione» per ridurre i costi di produzione, trasferendo molte fabbriche nelle zone del mondo dove la manodopera costava di meno.
Le aziende multinazionali riuscirono così a «indebolire su scala planetaria il potere contrattuale delle associazioni sindacali», determinando la riduzione dei salari, la diffusione del lavoro precario, l’aumento degli orari lavorativi e l’impoverimento della classe operaia. Le ricette neoliberiste, tuttavia, non garantirono una stabile ripresa dell’economia capitalistica e, pertanto, dopo il 2000 fu necessario ricorrere nuovamente agli investimenti statali nel settore bellico per sostenere la domanda e aumentare la produzione.
Il ritorno dell’economia di guerra
L’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 fornì «l’opportunità per gli Stati uniti di attuare un’imponente crescita della spesa militare». L’apparato bellico americano costituì con l’industria petrolifera ed elettronica un nuovo «complesso militare-industriale» che, limitando le libertà democratiche, implementò «una sorta di economia di guerra» e aumentò ossessivamente «la sorveglianza sistematica della vita dei ceti subalterni» (vedi Il controllo sociale attraverso la web sorveglianza).
L’incremento delle spese belliche e la militarizzazione dell’Occidente, tuttavia, non bastarono a rilanciare l’economia globale, perché contemporaneamente l’innovazione tecnologica fece aumentare «l’eccesso di capacità» del sistema capitalistico e provocò una nuova riduzione dei profitti. Le aziende multinazionali – per sopperire alle perdite di denaro – furono costrette a contrarre nuovi debiti con le grandi banche private, che rafforzarono così il proprio ruolo economico-politico e diventarono il perno del capitalismo globalizzato.
I disastri del capitalismo finanziario
Nell’ultimo ventennio il sistema finanziario mondiale ha concepito nuovi strumenti speculativi, come le «cartolarizzazioni», che consentono di trasformare i crediti a disposizione delle banche in obbligazioni acquistate anche da clienti inaffidabili. La compravendita dei mutui subprime, in particolare, ha creato una gigantesca «bolla immobiliare», esplosa nel 2007, che ha dato origine «prima alla recessione e poi alla crisi economica vera e propria».
Le banche centrali hanno attivato il quantitative easing, emettendo «una quantità enorme di moneta elettronica per acquistare titoli obbligazionari», allo scopo di «rimettere le banche in condizioni di fare credito all’economia ed evitare il default totale». Le aziende multinazionali, tuttavia, hanno impiegato un’ampia quota del denaro così acquisito «nell’imponente acquisto e riacquisto (buyback) di titoli e azioni sui mercati finanziari». Per accrescere i profitti, inoltre, sono state artificialmente gonfiate alcune “bolle finanziarie”, coinvolgendo nella loro costruzione anche «i media, la pubblicità, la ricerca scientifica e l’istruzione».
Le «bolle speculative»
Durante la pandemia provocata dal Sars-Cov-19 è stata creata una «bolla farmaceutica» che ha consentito ad alcune grandi aziende produttrici di medicinali antivirali e vaccini (BioNTech, Pfizer, Moderna) di beneficiare «di un’impressionante crescita del valore delle proprie azioni sui principali mercati borsistici» e di ricavare immensi profitti. È stato un lampante caso di shock economy, che consiste nell’approfittare di un disastro per accrescere i guadagni delle imprese private (vedi I metodi poco democratici della shock economy e la critica di Naomi Klein verso il sistema neoliberista).
Le lobby dell’“economia verde” – a loro volta – hanno approfittato del riscaldamento terrestre per indurre gli stati ad attuare la transizione ecologica e a finanziarla con i soliti strumenti neoliberisti (cartolarizzazioni, obbligazioni, ecc.) che hanno creato una «bolla verde». L’implementazione della green economy, tuttavia, è irta di contraddizioni, perché richiede comunque un enorme consumo di energia fossile e – paradossalmente – «implica un eccesso di emissioni di CO2».
Inflazione e Guerra d’Ucraina
Verso la fine della pandemia è sopraggiunta un’impennata dei prezzi su scala mondiale. L’incremento ha riguardato soprattutto le fonti energetiche (gas e petrolio) e i prodotti alimentari (soprattutto i cereali). L’inflazione, tuttavia, non è ascrivibile all’aumento della domanda globale, bensì a ragioni speculative, in particolare alla diffusione dei futures, contratti derivati a lungo termine simili a scommesse sulla crescita o meno del costo delle merci. Varie aziende multinazionali, inoltre, hanno «protetto i loro margini di profitto aumentando i prezzi».
Lo scoppio della Guerra d’Ucraina ha costituito l’occasione per ingrandire nuovamente le spese militari e rilanciare l’economia. Il conflitto, tuttavia, si spiega anche con ragioni geopolitiche. Gli Usa, infatti, mirano all’«espansione incessante della Nato verso Est» per estendere la propria egemonia e isolare la Russia dal resto dell’Europa. Anche Vladimir Putin, del resto, sta sfruttando la guerra per accrescere la produzione interna, ampliare il consenso popolare e tenere sottomessi gli oligarchi.
Come arginare il capitalismo bellicista?
Pannone – nella parte conclusiva del saggio – si dichiara pessimista sul futuro e ritiene arduo contrastare lo strapotere mondiale delle oligarchie finanziarie, la prosperità delle quali si basa sul «trasferimento puro di moneta dai redditi dei fattori produttivi alla rendita» e comporta il «sabotaggio del tradizionale meccanismo di estrazione della ricchezza». Le corporations transnazionali sono così potenti da condizionare gli schieramenti politici e i governi di moltissime nazioni, soprattutto nelle scelte economiche e militari. Il sistema dei partiti, infatti, è spesso diventato «solo un unico velo […] all’attuazione del disegno dei gruppi di potere economico-finanziari più forti».
Nell’attuale contesto storico, pertanto, è difficile realizzare riforme di tipo keynesiano per redistribuire la ricchezza e difendere «gli interessi della collettività». L’unica speranza espressa dall’autore – condivisibile, ma purtroppo utopica – è che sorga una nuova opposizione internazionale al capitalismo bellicista, fondata sulla «cultura dell’ascolto, della collaborazione, della pace e della convivenza civile».
Le immagini: l’interno di una fabbrica tessile (foto di Jay Turner, concessa a uso gratuito per www.pexels.com); dollari statunitensi (foto concessa a uso gratuito per https://pixabay.com); un palazzo di Kiev distrutto dalla guerra (foto di Алесь Усцінаў, concessa a uso gratuito per www.pexels.com).
Giuseppe Licandro
(LucidaMente 3000, anno XIX, n. 219, marzo 2024)
Estremo interesse. Ottimismo in seria difficoltà.