Per un «Nuovo Risorgimento. Breve itinerario di un sogno ad occhi aperti». Ecco l’ultima visione utopistica dell’antropologa romana
Circa un anno fa, il 21 febbraio 2016, si spegneva a Roma, a 91 anni, la celebre antropologa Ida Magli, nata, sempre nella capitale, nel 1925. È stata autrice di decine di saggi, spesso incentrati sulla storia delle donne e della sessualità, esaminate dal punto di vista dell’antropologia culturale. Una disciplina peraltro utilizzata originalmente dalla studiosa anche per analizzare il presente europeo. Prima di morire aveva terminato Figli dell’uomo. Duemila anni di mito dell’infanzia (Rizzoli, 2015). La saggista era nota anche per aver consacrato gli ultimi decenni della propria vita, a cominciare dal 1994 e dal libro Contro l’Europa. Tutto quello che non vi hanno detto di Maastricht (Bompiani, 1997), a denunciare profeticamente l’abbaglio dell’Unione europea. Tentò, infatti, di persuadere i maggiori personaggi politici italiani a non aderire a «un progetto fallimentare, foriero della fine della civiltà europea» e fondò, insieme a Giordano Bruno Guerri, l’Associazione Italiani liberi, un movimento politico-culturale con l’obiettivo di «difendere e rafforzare l’identità nazionale, storica e culturale degli Italiani».A lei LucidaMente dedica una trilogia di articoli, all’interno dei quali ne viene riassunto il pensiero espresso nei suoi ultimi libri usciti in vita, tutti per la Bur Rizzoli: La dittatura europea (2010); Dopo l’Occidente (2012); Difendere l’Italia (2013). Dopo aver esaminato nel numero di febbraio il primo e in marzo il secondo, concludiamo con la rilettura del terzo.
«Una controguerra [cui] dobbiamo rispondere costruendo, punto per punto, laddove loro distruggono e distruggendo, punto per punto, laddove loro costruiscono». Questa, secondo Ida Magli, la strategia da attuare per Difendere l’Italia (Bur Rizzoli, 2013).
È l’ultimo volumetto di una sorta di trilogia, della quale abbiamo già delineato i primi due atti (vedi: 1: La dittatura europea; 2: Dopo l’Occidente). Ma chi siamo “noi”? I cittadini europei. Chi sono “loro”? I grandi poteri della globalizzazione. E quale guerra si sta combattendo? Quella che intende annientare la civiltà occidentale e la sua bellezza: un «omicidio-suicidio che, per la prima volta nella storia, viene compiuto non da nemici su un popolo vinto, ma dai suoi stessi capi». Che hanno «soltanto il compito di realizzare, in totale asservimento, l’omogeneizzazione e l’unificazione dei popoli e degli Stati, distruggendoli nell’unificazione europea». La storia, infatti, ci insegna «come i popoli si disorientino, si disgreghino e muoiano quando sono costretti a subire l’impatto di altre abitudini culturali senza potervi reagire».
Per giungere a tale “risultato” si son mosse forze politiche e culturali in apparenza persino in contrasto tra loro, ma che, in ultima analisi, hanno agito congiuntamente. A partire dal Sessantotto, coi giovani «affascinati sia dalle conoscenze sui popoli “altri” […], sia dalla possibilità di rimettere in discussione tutti i “ruoli” prestabiliti, in base alla critica dell’autorità della famiglia, del “padre” soprattutto». La scuola postsessantottina ha massificato programmi, metodi, e quindi allievi: «Sembra di vivere in una società di analfabeti […]: gli studenti debbono studiare in modo da non imparare nulla, o quasi nulla. Per prima cosa non debbono imparare a “pensare”, a che cosa serva “pensare”; […] senza imparare nulla su di sé, […] sulla propria storia», in vista dell’«omogeneizzazione mondiale, la formazione di persone tutte uguali: i “cittadini del mondo”».
Insegnanti e genitori sono messi da parte, quasi ridicolizzati, e il mestiere di docente è diventato prevalentemente femminile, con gravi conseguenze per lo sviluppo armonico degli studenti: «Con l’inerzia cui si sono abbandonati i maschi nella società a preminenza femminile, il livello della creatività si è abbassato in modo preoccupante». Per di più, «qualsiasi forma di “valutazione” è proibita visto che valutare implica stabilire differenze. Il tabù dell’uguaglianza uccide le “differenze”, ma contemporaneamente uccide le intelligenze. […] C’è tanta attenzione a non isolare i portatori di handicap, ma non si pone la minima attenzione a salvaguardare ciò che è più prezioso perché è raro: l’intelligenza, e non ci si preoccupa di quanto soffrano coloro che sono costretti alla lentezza e alla superficialità nell’apprendere impressa dalla media degli allievi».
Sicché i giovani italiani ed europei, che dovrebbero essere l’elemento più vitale, critico, vivace, delle nostre società, «si aggirano “soli”, chiusi a ogni mondo che non sia quello riflesso nell’a tu per tu con il loro computerino. Una solitudine nuova, tragicamente vuota, […] e che parla anch’essa della fine dell’Europa. Non hanno nulla da dire a nessuno». Infatti, «i ragazzi si sono abituati a un linguaggio proprio, […] fatto di suoni mugugnati e cadenze al posto delle parole». Un idioma che «corrisponde all’uso implacabile delle sigle, dei termini anglo-tecnici dei loro aggeggi elettronici, alla loro inerzia mentale, alla loro abitudine a non fare sforzi di attenzione, di concentrazione, di vigilanza […], una specie di “assenza” dalla realtà che li circonda».
Con questa tipologia di nuove generazioni, è più agevole attuare «un programma di “pace” fondato sull’eliminazione delle differenze e l’omologazione dei popoli […], il perseguimento della mondializzazione con un centro di governo unico […]: per rendere possibile governare tutti i popoli nello stesso modo da un centro unico, bisogna che i popoli siano omogenei, con gli stessi bisogni, gli stessi desideri, e soprattutto il più possibile “passivi”. Come fare per omogeneizzarli? Il sistema più efficiente è quello di mescolarli fra loro perché mescolandoli se ne disintegrano gli “elementi” fondativi psicologici, culturali e, attraverso i rapporti sessuali e la procreazione, l’omogeneizzazione diventa genetica». Ecco il perché dell’improvviso «spostamento di enormi masse da un territorio all’altro»: cancellare culture, lingue, storie, sentimenti di appartenenza, insomma, ogni diversità. E vittime sono tutti, «sia quelli obbligati a spostarsi, sia quelli obbligati a rimanere fermi, subendo l’invasione». E tutto quello che pochi anni fa sarebbe apparso irrazionale, assurdo e scandaloso, oggi è diventato opinione comune.
È il caso del “dovere dell’accoglienza” ai migranti, indiscriminata, masochistica, dannosa per tutti. Imposta con «un martellamento incessante da parte degli strumenti di comunicazione di massa, dei politici e, almeno per quanto riguarda l’Italia, anche con una predicazione aggiuntiva e intimidatoria da parte della Chiesa. […] Il termine “accoglienza” è diventato termine tecnico per i “doveri” nei confronti degli immigrati, ed è usato dai governanti, da ogni detentore del potere, in forma intimidatoria nei confronti degli italiani, non soltanto ad indicare i loro obblighi, ma anche come indice della positività o negatività dei loro sentimenti. […] Insomma l’ideologia dell’“accoglienza” si è costituita come l’arma più efficace per depotenziare la vitalità, la fiducia in se stesso, la forza di un popolo e indurlo all’estinzione».
Gli italiani, difatti, si stanno estinguendo. Da tempo il nostro territorio, per le sue caratteristiche morfologiche, aveva raggiunto una densità massima di popolazione. Così, nei decenni trascorsi, era stato lo stesso istinto naturale a far sì che gli italiani limitassero le nascite. Ma cosa può fare la natura se «i governanti fanno volutamente arrivare dall’estero, così come permettono che sbarchino in Italia, milioni di stranieri»? «Si è creato in questo modo un circolo perverso a causa del quale più aumentano gli stranieri più gli italiani mettono al mondo pochi figli. Gli stranieri inoltre, in maggioranza musulmani, oltre ad avere come valore nella propria cultura la massima prolificità, tendono ad avere il maggior numero di figli proprio perché invadono e si impossessano di un nuovo territorio e vogliono così aumentare, come tutti i conquistatori hanno sempre fatto, con rapidità e profondità il proprio radicamento». E tali nuovi invasori occupanti non sono in grado di riconoscere la bellezza delle nostre città, con le loro piazze e monumenti, della nostra arte, della nostra musica, della nostra cultura. Dunque, tanto meno di apprezzarle e rispettarle.
Tale situazione «induce negli italiani sentimenti confusi di disagio psicologico, un insieme di amarezza e di stanca rassegnazione, che non può neanche essere espresso a causa dell’immediata accusa di razzismo, di xenofobia, di egoismo». Per non dire dei possibili reati di opinione che comportano un mandato di arresto europeo, con procedimento giudiziario insostenibile da sostenere, se non altro per le spese. È la dittatura del politicamente corretto, «la più efficiente delle censure perché prima di essere una censura, è un “lavaggio del cervello”, tende – e riesce – a costringere il pensiero a vedere e a percepire in maniera allucinatoria la realtà attraverso definizioni e concetti precostituiti».
Ma che fare? Come reagire? Come tornare a «vivere una vita che valga la pena di essere vissuta, per noi e per coloro che verranno dopo di noi»? Come scatenare «il bisogno insopprimibile di tornare ad essere uomini, di riaffidarsi al pensiero, al cuore, allo spirito»? E come realizzare un «Nuovo Risorgimento. Breve itinerario di un sogno ad occhi aperti», secondo quanto recita il Capitolo 3 di Difendere l’Italia? Certo, «richiamare con forza alla memoria, al cuore degli italiani, la bellezza del loro territorio […]. Riproporre al pensiero e allo studio degli italiani […] la grandezza della loro storia, della scienza, dell’arte, della musica, di tutte le loro capacità creatrici». E più nel concreto? La Magli sciorina una serie di proposte giuridiche, politiche, istituzionali, alcune utopistiche, altre ingenue, ma altre molto ragionevoli. Ad esempio, quelle riguardanti gli stranieri: nessuna concessione di cittadinanza per via matrimoniale e nessun ricongiungimento familiare (in Francia o in Belgio pagano oggi l’eccessiva generosità su questi due punti). Ma, forse, la più solida speranza di salvezza risiede proprio in una delle valutazioni finali dell’autrice: «gli italiani danno fastidio a tutti, sono troppo imprevedibili». Speriamo, allora, che ci salverà la nostra sottile vena di genio e follia, di indisciplina e di secolare scetticismo verso il potere.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XII, n. 137, maggio 2017)