Nel suo nuovo romanzo, pubblicato da Daimon Edizioni, Dario Stefano Villasanta continua a proiettarci entro l’oscuro, violento, disperato mondo parallelo alla nostra società perbenista
La nostra rivista, con Edoardo Anziano, aveva già segnalato la ristampa dei due precedenti, potenti romanzi del monzese Dario Stefano Villasanta: Angeli e folli e Nella pancia del mostro. In essi vi si raccontava crudamente e crudelmente un’umanità emarginata e si denunciava l’insensibilità e, peggio, gli interessi politico-economici dei servizi sociali, riabilitativi e di assistenza per i disagi psichiatrici e di altro tipo.
Una Milano dai tanti volti
Il narratore monzese continua la sua esplorazione/narrazione di un mondo cupo, violento, disperato, eppure parallelo, coesistente e a volte mescolato con quello patinato, buonista, ipocrita della società “perbene” e dei suoi servili mass media mainstream. Lo fa col suo nuovo, recente romanzo I santi non esistono e gli eroi son tutti morti (Prefazione di Alessandro Bastasi, Daimon Edizioni, L’Aquila 2023, pp. 268, € 17,00).
In esso, non a caso, ricompaiono molti degli stessi protagonisti delle opere precedenti, che vivono vicende ancora più tortuose e drammatiche, con l’ingresso in campo di una delinquenza sempre più organizzata e spietata quale la ’ndrangheta. Le storie dei personaggi, come Dax, Giulia, Francesca, Sasà, sono sempre sospese, sospese a un filo fragile quanto invisibile. La suspence, pertanto, si fa sempre più forte, per arrivare a un finale sorprendente quanto imprevedibile.
A caratterizzare la narrazione di Villasanta è la tipologia sociale e umana del tutto particolare (tossicodipendenti, prostitute, persone con disagi psichici, immigrati, delinquenti veri e propri) e l’ambientazione urbana. Vi compare, infatti, una Milano completamente lontana da ogni precedente stereotipo. Nel male: più cupa, incontrollabile, spietata. Nel bene, con tratti idilliaci e poetici: «Il cielo diventa rosa, il tramonto di Milano ci accoglie, gli alberi gettano steli ombrosi sull’erba del parco, gentili come carezze, e sembrano rassicuranti promesse di ombre accoglienti, confortevole coltre della notte» (p. 44).
Una Milano fascinosa e dagli odori attraenti oppure vissuta nei locali notturni borderline e nei parchi dominati da bande sudamericane di disperati spacciatori.
Maledetti e fragili tra due mondi paralleli
Lo stile del romanzo è caratterizzato da un linguaggio che talvolta si trasforma in slang, in enfasi emotiva e discorsi esistenziali che ricordano film come Sin City, mentre spesso cambia la voce narrante e frequente è il passaggio dalla prima persona (lirismo) alla terza (azione).
Una letteratura “di vita”, nella quale prevalgono violenza, aggressività, istintualità, durezza, che a volte si sciolgono in improvvisi squarci di luce, sensibilità, umanità, fragilità («dannazioni da mandare ai cieli», p. 92). La fragilità dell’adolescenza e della giovinezza sulla quale la vita e la società hanno costretto i personaggi a costruirsi una corazza per sopravvivere (si legga il poetico, commovente capitolo C’ero una volta, pp. 181-187).
Perché, come ci ricorda David Lynch in film come Blue Velvet, il confine tra la tranquilla vita “normale”, il mondo dei “buoni”, e l’abisso delle tenebre è sottile; basta un attimo, un piccolo evento e ci si trova proiettati in quell’universo tenebroso. Nessuno può sentirsene completamente al di fuori, tranquillo e al sicuro. I due mondi scorrono paralleli, ma le loro acque possono mescolarsi…
Gli ipocriti e gli sfruttatori
Ma, come dicevamo all’inizio, non possono esservi alcuna pietà e comprensione per gli sfruttatori istituzionali delle sofferenze e dei disagi altrui, dai servizi sociali e assistenziali, alle cooperative: «Ci si tiene a galla per un motivo solo, che non è resistenza alle ingiustizie, ma credere che prima o poi qualcuno gliele faccia pagare, a quei figli di puttana con la specializzazione appesa al muro, che capiscono solo quanti fondi possono intascare dalla Regione […]. Quanto schifo debbano sopportare anziani, malati e disabili da parte di un personale spietato e incompetente in strutture fatiscenti gestite come lager […]. Le comunità terapeutiche mirano solo a renderti dipendente dalla loro struttura senza la quale non avresti neanche quel minimo che ti consente di sopravvivere, figurati di vivere» (p. 124).
Un romanzo di disperazione e di amore, ma anche di denuncia e rancore verso la società “normale”…
Ricordiamo al lettore, tra le altre, alcune recensioni comparse su LucidaMente di romanzi, saggi, inchieste, aventi tra le proprie tematiche il ricco, ipocrita business che ruota attorno a istituzioni, enti, cooperative e associazioni che si “occupano” di emergenze umane e sociali:
– Francesca Gavio, Onlus cattoliche… a scopo di lucro (Giorgio Morale, Acasadidio, Manni Editori; sul presunto volontariato di una non tanto immaginaria “Compagnia”, impegnata più nel profitto e nella politica che nell’offrire servizi, nella stessa Milano nella quale sono ambientati i romanzi di Villasanta);
– Loretta Scipioni, Quando le istituzioni umiliano il cittadino (Nunzia Manicardi, Casi da pazzi. Quando Giustizia, Psichiatria e Servizi Sociali incrociano la strada del cittadino italiano, Koinè Nuove Edizioni; sulla disumanità dei servizi psichiatrici e sociali e la lobby intoccabile che li governa);
– Rino Tripodi, A chi i profughi? A noi! (Mario Giordano, Profugopoli. Quelli che si riempiono le tasche con il business degli immigrati, Rizzoli; sull’accoglienza dei migranti).
Rino Tripodi
(LucidaMente 3000, anno XVIII, n. 215, novembre 2023)