Anticipiamo il sorprendente incipit de Le felicità nascoste. Memorie involontarie di un bevitore di vino (pp. 210, € 14,00) di Paolo Bonesso, quinta uscita della collana La scacchiera di Babele delle Edizioni di LucidaMente: un romanzo “colto”, ma gradevole e affascinante, che segue il già notevolissimo Jiwe pietra d’Africa. Un delirio tropicale (Iride-Rubbettino, 2003).
Alla vigilia del suo centesimo compleanno, un uomo, che si è da tempo ritirato in solitudine, si appresta a celebrare l’avvenimento sistemando con cura le bottiglie di vino che si è fatto inviare da ogni parte del mondo presso la sua piccola dimora di fronte al mare. L’intento è quello di spegnere, con l’aiuto dell’alcol, ogni memoria del proprio passato e consegnarsi, dunque, alla morte.
Durante i preparativi, l’anziano non riesce a resistere all’ammaliante seduzione delle bottiglie, accostandosi alle stesse “senza prudenza e senza pudore”. L’intensa bevuta realizza un effetto contrario a quello sperato, scatenando ricordi che prendono la forma di racconti, intitolati ai vini che li hanno fatti rinascere, una sorta di catalogo di nettari d’uva e luoghi nei quali si è imbattuto nel suo costante peregrinare attraverso il mondo.
La narrazione è dominata da una prosa ricca di acrobazie, altalene, capitomboli – come nei giochi dei bambini -, ma anche carica di dolente rimpianto per non avere saputo cogliere le “felicità nascoste” incontrate durante il lungo cammino nella vita. Il tono è pertanto nostalgico, filosofico, tra Borges, García Márquez, Sepúlveda, e si condensa in un impasto stilistico prezioso e ricco di sapori, simile alle donne, ai paesaggi, ai vini descritti via via nel romanzo. Su tutto, una stupefazione palpitante per le mirabili, malinconiche, pieghe dell’esistenza.
Domani compio cento anni. Festeggerò da solo, come la vita ha scelto per me.
Ci sarà tanto silenzio intorno e voci di bambini dalla strada. Dalla finestra entrerà il mare, senza farmi paura.
Da molto tempo vivo su questa costa dolce e non ho fatto altro che tentare di dimenticare.
Ho aperto più volte il petto alla luna, sperando che assorbisse in sé ogni fallimento, portando lontano le tracce di quell’ansia un po’ tremolante che è stata, per lungo tempo, mia compagna di viaggio.
Avrei potuto intitolare questa confessione “Prima e dopo di lei”, se solo ne avessi avuto il coraggio, se avessi ammesso a me stesso che, a un certo punto, la mia vita svoltò, all’improvviso, e non fu mai più quella di prima. Ma di ciò parlerò più avanti, forse domani, quando avrò compiuto cento anni.
Ora voglio organizzare le mie compagne di domani, sistemarle per bene, coccolarle un pochino, affinché il loro contenuto possa regalarmi eccitazione, pianto, sorpresa, pace.
Ho deciso di celebrare il mio personale centenario ai margini della vita bevendo i vini migliori che ho gustato durante i giorni che mi hanno condotto fin qua, davanti a un canale lungo il quale sono sparpagliate molte isole.
La città non è lontana. Da qui si sente la sua fragranza polverosa. Prima abitavo in un appartamento sopra un bar. Poi la gente cominciò a farmi paura e le ragazze a essere troppo giovani, troppo flessuose, troppo lucide, bellissime. Alcune venivano a casa mia per farsi correggere gli elaborati di ammissione all’università. Di alcune mi sono invaghito. Due di loro vissero da me per un po’, dividendo la piccola veranda, il bagno cobalto, la cucina dai muri alti, bianchissimi, e la stanza da letto, con lenzuola che loro stesse facevano lavare e profumare dalle madri e dalle sorelle.
Poi divenni troppo geloso, troppo sordo, troppo vecchio.
Avevo combattuto per molti anni la degenerazione naturale dei tessuti, mi ero opposto con tutte le forze ai segni che il tempo disegnava su di me.
Sono sempre stato ossessionato dalla giovinezza e, soprattutto, dalla bellezza, l’unica virtù di questo mondo. L’ho cercata dappertutto, voluta, posseduta, bevuta, contemplata, divorata. In tutti i posti della terra andavo alla ricerca di lei, come di un’innamorata in continua fuga ma generosa d’abbracci appena fosse stata scovata da qualche parte, intenta a tessere una tela di ragno o a trastullarsi fra le conchiglie.
Quando scopersi che le giovani donne che frequentavo mi sceglievano più per i segni che il tempo era riuscito a graffiare sul mio corpo che per la parte tonica e scalpitante dello stesso, fu, allo stesso tempo, uno shock e una rivelazione. Rendermi conto che amavano scendere dentro la mia anima ferita, mi fece cominciare a sperare.
Non so dire nemmeno ora, rotolando lungo l’ultimissima scarpata della vita, se sia stato un bene oppure no, ma credo che sperare mi abbia aiutato a resistere, se non all’invecchiamento, di certo al dolore.
Come dicevo, presi a sperare che le donne potessero davvero migliorare il mondo, crescere figli senza l’aiuto degli uomini, combattere contro l’ingordigia, la stupidità, la volgarità. Donne dai volti illuminati, neri e bianchi, avvolte in cascate di capelli o rasate come marines, donne con ciglia lunghe, con occhi grigi come quelli di volpi incantate davanti a una montagna di neve, donne dai visi incastonati fra veli ricamati o cosparsi di fango rosso.
Cominciai a sperare in loro e da loro raccolsi tutta la mia consolazione. Da loro e dal vino.
Ora che sono troppo vecchio e le ragazze si limitano a mandarmi baci dai balconi, non mi rimangono che le bottiglie, alle quali, da qualche anno, consegno il compito di far piangere la mia tristezza, trasformare i rimpianti in versi più o meno poetici, farmi scivolare in un sonno che, prima o poi, sarà senza ritorno.
Oggi sono solo con le mie bottiglie. Ho speso un capitale per farmele recapitare qui, nella stanza davanti al mare che sale dal golfo, pieno di pesci e di musica.
Qualche volta scendo alla spiaggia, quando la sera si fa rossa e la frescura scivola dalle montagne. Immergo nell’acqua le caviglie ed estraggo dalla tasca della giacca una bottiglia di vino bianco, tiepido. Mi faccio aiutare da lui ad allontanare gli spiriti maligni.
Bevo il mio vino lentamente, poi torno a casa, attento a non inciampare nelle radici, mi distendo sul letto, amo ancora una volta il viso di lei, così come la ricordo, quando mi guardava di nuovo con dolcezza dopo che il cuore le era sanguinato, e scendo dentro una notte che da parecchio tempo è la caldissima, penultima notte della mia vita.
(da Le felicità nascoste. Memorie involontarie di un bevitore di vino di Paolo Bonesso, Edizioni di LucidaMente)
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L’immagine: Nudo di donna e bottiglie di vino (elaborazione digitale-stampa su tela e pittura a olio) di Tahimé “Flor” Bauer.
Giuseppe Licandro
(LucidaMente, anno II, n. 5 EXTRA, supplemento al n. 17, 15 maggio 2007)