Giorgio Dobrilla, nel suo recente libro “Cinquemila anni di effetto placebo”, edito da Edra, esamina un intreccio di passioni umane e progressi medici, alla ricerca di una terapia o di una sostanza “miracolosa” che spesso è più vicina di quanto si creda
Primario gastroenterologo emerito dell’Ospedale di Bolzano, Giorgio Dobrilla è stato per lungo tempo anche professore universitario e divulgatore scientifico. Nel libro Cinquemila anni di effetto placebo. Nella pratica clinica, negli studi controllati e nelle medicine non convenzionali (Edra, pp. 288, € 19,90, con Prefazione di Marco Ciardi, docente di Storia della Scienza e delle Tecniche all’Università degli Studi di Bologna) si sofferma sui principali fenomeni psichici e diagnostici su cui si basa la più comune aspettativa di guarigione dei pazienti.
La definizione più abituale di “placebo” è quella di composto privo di attività farmacologica specifica, che però mostra una certa efficacia clinica. In verità, placebo può essere non solo un farmaco, ma pure un’attenzione, una procedura diagnostica o anche chirurgica che alimenti le speranze di stare meglio. Esso è inoltre un protagonista negli studi clinici controllati, nei quali funge da confronto con un farmaco nuovo. Se l’utilità di questo risulterà statisticamente superiore a quella aspecifica del placebo, al nuovo farmaco si riconoscerà un’efficacia specifica. L’effetto placebo altro non è che la reazione psicosomatica dell’individuo, che pone fiducia nel trattamento prescrittogli. Ne consegue una liberazione di numerosi mediatori e neurotrasmettitori, tra i quali innanzi tutto endorfine (oppiacei endogeni), endocannabinoidi (marijuana-simili), dopamina, serotonina.
Tale fenomeno, oltre a essere analgesico, migliora pure i sintomi non solo soggettivi di svariate malattie come il morbo di Parkinson, l’ulcera peptica, l’angina pectoris, il colon irritabile, la dispepsia funzionale, l’osteoartrite, la depressione di media gravità e l’ansia, la schizofrenia, le alterazioni dell’umore. Le tecniche di immagine (risonanza magnetica, Pet) hanno contribuito in modo prezioso a stabilire quali zone cerebrali vengono attivate nei soggetti placebo-trattati. Queste in parte corrispondono a quelle attivate da farmaci “veri” (per esempio, gli antidepressivi), in parte sono diverse, rivelando co-meccanismi indipendenti di reazione.
Affinché il placebo agisca, è però necessario che il soggetto sia consapevole e vigile, che non sia né cerebroleso né anestetizzato. La cura dichiarata (open) con un placebo è molto più efficace di quella mascherata (hidden), e ciò vale anche per l’eventuale sospensione del trattamento: se terapia e sospensione avvengono all’insaputa del paziente, non si hanno conseguenze cliniche né positive né negative. Parte degli psicoterapeuti si chiede se anche la psicoterapia non sia altro che un peculiare effetto placebo. Anche i benefici soggettivi della fede religiosa potrebbero avere la stessa natura, così come la possibilità di un doping-placebo nello sport. Infine, nel libro si trova conferma della natura placebica delle cure alternative, omeopatia in primis. I fautori in bona fide si irritano senza motivo solo perché ignorano il potenziale del placebo. È importante, in ogni modo, che l’omeopatia non ritardi un approfondimento diagnostico e che non sostituisca farmaci adeguati, soprattutto salvavita, già esistenti. Il recente decesso di un bambino per una semplice otite trattata con omeopatici ne è una drammatica e non unica testimonianza (al riguardo vedi, in Bufale mediche, la Prefazione di Piero Angela a un altro libro di Dobrilla).
Le immagini: la copertina del libro Cinquemila anni di effetto placebo e una foto dell’autore Giorgio Dobrilla.
Antonella Colella
(LucidaMente, anno XII, n. 139, luglio 2017)