La serie televisiva ideata dall’ineffabile Roberto Saviano dopo il successo del suo libro è esteticamente affascinante quanto ambigua. Di certo, non aiuta la lotta alla camorra, anzi ne moltiplica l’attrazione presso i giovani
Questo non è il «paese del sole». Anzi, questo non è neanche un posto abitato da esseri umani. E neppure da bestie feroci, perché si rischia di offenderle. È il pianeta immaginario di Gomorra, la serie televisiva liberamente tratta dal fortunato romanzo di Roberto Saviano, giunta alla quarta stagione e trasmessa a pagamento su Sky Italia e successivamente, in chiaro, sulla collegata Tv8.
A Napoli non ci sarà sempre il sole, le persone non sono eternamente canterine, bonarie e allegre, come da antica oleografia, tuttavia la città partenopea rappresentata da Gomorra è altrettanto irreale: volutamente cupa, con colori metallici, grigi, priva di luce, se non quella artificiale, al neon. Un crepuscolo, anzi una notte perenne. La fauna umana (si fa per dire) è violenta, donne e adolescenti compresi, mossa solo dal potere criminale che dà soldi e lusso volgare. Ma nessuno si gode nulla: c’è subito un’altra banda che ti vuole soppiantare ammazzandoti. Uno dei difetti della serie, infatti, è la ripetitività di liti, minacce, agguati, sparatorie; e anche il sangue e la brutalità alla fine stomacano. Manca totalmente il bene, l’amore, un minimo di cultura e di arte, di paesaggio e natura (edifici e ambienti sono in pieno degrado, come le vele di Scampia).
Ma non è rappresentata, neanche come sfondo, la “normalità”, la vita comune, che pure sono parte – la maggiore, crediamo – della realtà sotto il Vesuvio. È l’inferno in terra, con dialoghi brutali, tutti nello stretto dialetto della malavita partenopea. Si tratta, beninteso di una legittima e diremmo riuscita scelta espressiva e artistica. La fotografia è validissima e la rappresentazione espressionistica al limite dell’irreale è davvero di alto livello. Bravissimi i tanti registi che si sono succeduti nei vari episodi. Ed è buona l’interpretazione degli attori, forse troppo vicini ai propri personaggi.
Tutto bene, dunque? Certamente no. La serie di Gomorra affascina il giovane sbandato, il balordo napoletano e non solo. È un’esaltazione di uno stile di vita che per molti costituisce un sogno cui pervenire con ogni mezzo. Insomma, non è un deterrente né tanto meno un antidoto alla delinquenza organizzata e alla violenza. Il che è stato evidenziato dalle critiche di magistrati antimafia, di critici televisivi e persino di chirurghi di trapiantologia. Però l’arte non deve mica essere moralista o didattica, no? D’accordo. L’unico aspetto che proprio non può essere taciuto è che Saviano, oltre ad aver dato lo spunto iniziale con la sua fortunata e – anche quella – criticatissima pubblicazione, risulta ideatore e sceneggiatore pure della serie. Insomma, il paladino, l’eroe, il professionista dell’anticamorra, che canta l’epopea della “cultura” e della violenza camorristica… Ma pecunia non olet, no?
Rino Tripodi
(LucidaMente 3000, anno XV, n. 179, novembre 2020)
Condivido pienamente. “Gomorra” è un pessimo esempio di come un grande intellettuale, qual è Saviano, getta nelle ortiche la sua etica civile per realizzare dei film che – oggettivamente – portano fascino alla camorra.
La questione è se davvero Saviano sia un grande intellettuale e militante anticamorra (peraltro, a quanto pare, soppiantata in molte zone del casertano dalla mafia nigeriana, sulla quale il suddetto si ostina a non dir alcunché) o solo un bel furbastro…