Sono trascorsi poco meno di sei anni dal giorno in cui mi capitò di entrare in uno studio fotografico di Lamezia Terme. L’insegna recava un cognome che mi fu subito famigliare, ma non mi soffermai a chiedermi chi o cosa mi rammentasse. Il proprietario era un signore mite sui sessant’anni. Ciò che mi colpì subito di quell’uomo, furono i suoi occhi colmi di tristezza, di una tristezza infinita, come se qualcosa gli impedisse, da tempo, di lasciarsi andare a un pianto liberatorio. Ebbi, allora, come la sensazione che ci fosse qualcun altro in quello studio.
Guardai meglio le tante foto che tappezzavano le pareti. Tutte le foto ritraevano solo e unicamente l’immagine di un giovane: Gennaro Ventura. Quell’uomo, mite e con gli occhi tristi, ne era il padre: Pasquale Ventura.
L’angoscia causata dalla lupara bianca – Sei anni prima, il pomeriggio del 16 dicembre del 1996, Gennaro Ventura era scomparso dopo essersi allontanato da quello stesso studio. Era uscito portando con sé due macchine fotografiche. Aveva 28 anni. Da quel giorno, ogni ricerca risultò vana. Del giovane nessuna traccia. Era sparito nel nulla, lasciando dietro di sé angosce e dubbi. Col tempo si fece strada la convinzione che la causa della misteriosa scomparsa di Ventura fosse da ricercare in qualche episodio del suo passato. Si scoprì che nel 1991, un anno prima che il giovane smettesse la divisa di carabiniere, quando ancora era in servizio a Tivoli, era stato uno dei testimoni chiave in un procedimento penale conclusosi con la condanna di due uomini. Secondo la tesi più accreditata, quindi, Gennaro Ventura poteva essere rimasto vittima della lupara bianca. Una vendetta, dunque. E di quelle che lasciano una ferita aperta per sempre.
Il ritrovamento di resti umani e di pochi oggetti – Ho rivisto Pasquale Ventura in televisione, mentre rilasciava un’intervista. Il 27 aprile, all’interno di un vecchio casolare di campagna sito alla periferia ovest di Lamezia, sono stati rinvenuti resti umani in una di quelle vasche in cui un tempo avveniva la lavorazione del mosto. Appartengono a un uomo, ucciso con un colpo di arma da fuoco alla nuca. La morte risalirebbe ad almeno dieci anni fa. Si attendono i risultati di esami più approfonditi per poter dare con certezza un nome alla vittima, ma, intanto, gli oggetti ritrovati accanto a quei resti inducono a pensare che si tratti del giovane fotografo scomparso dodici anni fa. È stata recuperata una fede nuziale con inciso lo stesso nome della moglie di Ventura, oltre a due macchine fotografiche come le due che aveva con sé il giorno della scomparsa, e delle chiavi, una delle quali riconducibile alla sua auto. Oggetti che ci raccontano solo di lui.
Gli indifesi riaffiorano in superficie – Scende così a sei il numero di persone scomparse nella zona e mai più ritrovate negli ultimi vent’anni. In una terra disseminata di odio, dove ogni tipo di sopruso è possibile, accade spesso che delle creature indifese sprofondino nell’oblio. Ma, a volte, succede anche che qualcuna di quelle stesse creature riaffiori in superficie. Come quei poveri resti rinvenuti in un vecchio casolare di campagna. “Sono pochi resti… sì, ma sono contento così”, rispondeva Pasquale Ventura, con voce rotta dall’emozione, a chi gli chiedeva che cosa provasse in quel momento. Diceva questo, e mentre lo ascoltavo ripensavo a quel piccolo studio fotografico in cui lo avevo lasciato sei anni prima. A quel luogo di assenza e presenza insieme.
L’immagine: particolare di Meteorite rossa (il caos) (olio e acrilico, 2004) di Angela Crucitti, per gentile concessione dell’autrice. Per ammirare altre opere di questa notevole artista, si può navigare nel suo sito personale: www.angelacrucitti.com.
Vincenzina Fiorentino
(LucidaMente, anno III, n. 35, novembre 2008)
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