Il 24 dicembre di dodici anni fa moriva lo studioso americano autore del fondamentale saggio “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” (Garzanti). Amato, odiato, discusso, il volume resta un’opera fondamentale e attualissima, soprattutto in ambito geopolitico e culturale. Le previsioni sull’imperialismo economico della Cina e sull’aggressione demografica dell’islam
1989. L’Unione sovietica comunista comincia ad andare in pezzi, a dissolversi. Per circa cinquant’anni, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il mondo era stato dominato dalle due superpotenze Usa e Urss, in uno scontro a tutto campo, che, però, non era mai sfociato in un conflitto diretto, con armi convenzionali o, peggio, con armi di distruzione di massa (nucleari). È il lungo periodo della Guerra fredda, che sembrava non doversi concludere mai.
Tale «equilibrio del terrore» aveva comunque reso stabile lo scenario geopolitico internazionale. Con il crollo dell’impero sovietico, quindi con la fine di uno dei due attori principali della lotta per la supremazia sul pianeta, era facile prevedere che avrebbe prevalso la politica, l’economia, la potenza militare, l’influenza diplomatica dell’unico che era rimasto: gli Stati uniti. Pertanto, il politologo statunitense Francis Fukuyama (Chicago, 1952) può scrivere La fine della storia e l’ultimo uomo (Rizzoli, Milano 1992). Beninteso, si tratta di un saggio complesso e pregevole, ma la vulgata l’ha semplificato affermando che la tesi principale dell’autore fosse quella per cui, con la sparizione di uno dei due contendenti, non essendoci più partita militare o ideologica, la democrazia liberale si sarebbe diffusa dappertutto e… conclusione dei giochi. Ma nel 1996 un altro studioso statunitense, Samuel Phillips Huntington (New York, 18 aprile 1927 – Martha’s Vineyard, 24 dicembre 2008), del quale peraltro Fukuyama era stato allievo, elabora un altro saggio secondo il quale sullo scenario mondiale i giochi erano ben lungi dall’essersi decisi, anzi si sarebbe aperta una nuova fase. Il fondamentale libro dello studioso s’intitola Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Pubblicato nel 1996, viene tradotto e pubblicato subito in Italia da Garzanti nel 1997. La prima edizione economica presso Garzanti Elefanti risale proprio a circa vent’anni fa, al maggio 2000, ed è stata regolarmente ristampata fino a oggi (pp. 504, € 17,10). L’idea centrale contenuta nel volume (che infastidì tanti benpensanti) è che, se con la Guerra fredda lo scenario si era costruito intorno alle ideologie politiche contrapposte, nel XXI secolo le «linee di faglia», cioè le tensioni e i conflitti veri e propri, si modelleranno in base agli aspetti culturali di lunga durata, a partire dalle civiltà e dalle religioni.
Però, nel frattempo, lo scenario mondiale generale è cambiato. Il potere dell’Occidente è in forte calo, anche perché cresce quello economico dell’Asia, in particolare della Cina, e quello demografico dei Paesi islamici. Ma, soprattutto, tutte le civiltà non occidentali «riaffermano il valore delle proprie culture». Huntington, pur ammettendo egli stesso che si tratta di una suddivisione discutibile, ne distingue nove: africana, buddista, giapponese, indù, islamica, latinoamericana, occidentale, ortodossa, sinica (vedi cartina). La civiltà occidentale è l’unica a non essere caratterizzata da forti connotazioni religiose o identitarie, ma da aspetti culturali e politici; per sopravvivere, deve «accettare la propria civiltà come qualcosa di peculiare, ma non di universale, e unire le proprie forze per rinnovarla e proteggerla dalle sfide provenienti dalle civiltà non occidentali». Sicché «il bipolarismo relativamente semplice della Guerra fredda sta cedendo il posto a ben più complessi rapporti di un mondo multipolare e suddiviso in civiltà».
Importantissima è la distinzione compiuta dal saggista statunitense tra Modernizzazione e Occidentalizzazione. L’Occidente non consiste nell’industrializzazione, nella telematica dei social, nel consumismo, nella musica di massa o nelle fiction di facile visione, ma è una civiltà. Se tale Modernizzazione, più legata a tecnologie, economia, mode, football, e consumi di beni anche futili, si va diffondendo, la civiltà occidentale assolutamente no; anzi, all’esterno viene rifiutata quasi in toto, a partire dalla democrazia politica, dal cristianesimo, dall’umanesimo… È davvero cieco pensare che se gli islamici o i cinesi calzino delle scarpe sportive occidentali o bevano Coca Cola si “occidentalizzino”; e lo è ancor di più pensare che l’Occidente stia così dominando e, addirittura, opprimendo gli altri popoli e culture. Persino l’ampio uso dell’Inglese come lingua franca non è sinonimo di dominio culturale: «È un modo per superare le differenze linguistiche e culturali, non di eliminarle. È uno strumento di comunicazione, non una fonte di identità e comunanza». Similmente, da secoli quasi tutti i popoli usano i numeri arabi, ma non per questo si è assistito a una loro islamizzazione. La Modernizzazione significa industrializzazione e, quindi, urbanizzazione, istruzione, ricchezza, mobilità sociale, incremento del settore terziario e professioni diversificate: in effetti, essa si sta progressivamente espandendo nelle società umane dell’intero pianeta.
Ma l’Occidentalizzazione è un fenomeno che precede la Modernizzazione e scorre quasi parallelo ad essa; l’Occidente è caratterizzato dalla separazione tra autorità spirituale e temporale (e, in tempi successivi, nella laicizzazione), dallo stato di diritto, dal pluralismo sociale e politico, dai corpi rappresentativi, dall’individualismo, dall’uguaglianza uomo-donna, dalla tolleranza, ecc. Nessuna grande religione è nata in Occidente, ma – fatto fondamentale – vi sono sorte tutte le grandi ideologie politiche, fra le quali la democrazia. Chi potrebbe affermare che, in tali termini, il mondo si sia occidentalizzato? Anzi, i “risvegli” cinese e islamico stanno procedendo verso la deoccidentalizzazione di ciò che s’era introdotto nelle loro culture (si pensi all’influenza britannica in India), in particolare tra metà Ottocento e metà Novecento. Scrive Huntington: «La rinascita delle religioni non occidentali è la più possente manifestazione di antioccidentalismo esibita dalle società non occidentali. Non costituisce il rifiuto della modernità: è un rifiuto dell’Occidente e della cultura laica, relativista e degenerata ad esso associata». Difatti, afferma Huntington, «una civiltà rappresenta sempre un’identità culturale. […] Civiltà e cultura fanno riferimento allo stile di vita generale di un popolo, e una civiltà non è altro che una cultura su larga scala». Gli elementi distintivi più importanti di una civiltà sono la lingua, i costumi, ma, soprattutto, la religione; secondarie sono le etnie e le razze (ad esempio, per cristianesimo e islamismo esse non hanno alcuna importanza ai fini del proselitismo).
Una prova che Huntington avesse ragione risale a ben prima del suo saggio, eppure non la cita. Ci riferiamo alla Guerra delle Falkland (2 aprile-14 giugno 1982), tra Argentina e Regno unito. Una breve, quanto “sporca” guerra, sulla quale, per motivi di spazio, non possiamo soffermarci. In sintesi, uno scontro avente come belligeranti da una parte la giunta militare argentina di destra, sanguinaria, golpista, in crisi (l’attacco alle isole fu un tentativo di accaparrarsi popolarità presso i propri cittadini); dall’altra un Paese liberaldemocratico, occidentale, aggredito. Ci si aspettava che tutto il mondo occidentale, democratico, antiautoritario, si schierasse con gli inglesi. Non fu proprio così. Altre opposizioni emersero: cattolici/protestanti; latini/germanici; terzomondisti/imperialisti; Sud/Nord; sfruttati/capitalisti… Per di più, una buona parte degli argentini era (ed è) di origini italiane. Così accadde che molti nostri connazionali, anche di sinistra, “tifarono” per l’Argentina piuttosto che per “la perfida Albione”: quella che era una semplice guerra si era trasformata in guerra di civiltà e di identità etnico-culturali. Morale della vicenda: i legami etnici, culturali, religiosi, sono fattori decisivi dello scacchiere internazionale. Un altro esempio più recente è costituito da come Vladimir Putin sia diventato il nuovo “zar” di Russia, al contempo facendola ridiventare grande potenza mondiale, puntando sul recupero delle radici culturali, etniche e religiose dell’enorme nazione eurasiatica.
Il saggio di Huntington ha anche il merito di porre al centro del dibattito la geopolitica e gli studi strategici. Allora, analizzando gli aspetti geografici in senso ampio e culturale, cosa dobbiamo aspettarci dal futuro? Possiamo dire che esso sia già avvenuto, secondo quanto previsto dallo studioso: «La linea di faglia più pericolosa sembra quella che separa il mondo islamico dagli stati adiacenti ortodossi, indù, africani e cristiano-occidentali. […] Gli scontri più pericolosi del futuro nasceranno probabilmente dall’interazione tra l’arroganza occidentale, l’intolleranza islamica e l’intraprendenza sinica». Superando la miopia e il pregiudizio ideologico del secolarismo laicista, bisognerebbe ammettere che «la religione non sia affatto una “piccola differenza”, ma probabilmente l’elemento distintivo più profondo che possa esistere tra i popoli». Pertanto, è “normale” che i conflitti locali scoppino quasi sempre tra popoli di religione diversa e siano delle «guerre tra gruppi che fanno parte di ben più ampie entità culturali». L’esempio attuale è dato dal conflitto – fortunatamente per ora spentosi – tra Armenia e Azerbaigian per la contesa regione del Nagorno-Karabakh. Ad affiancarsi “diplomaticamente” alla prima, cristiana, è stata la Russia, alla seconda, islamica, la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, e con aggressività ben maggiore.
Oltre alla religione, l’aspetto, a nostro parere, più determinante, trascurato del tutto da chi analizza le problematiche globali e intende ipotizzare gli scenari futuri è quello della demografia. Se «il desiderio di affermazione asiatico si fonda sulla crescita economica, quello musulmano scaturisce in considerevole misura dalla mobilità sociale e dallo sviluppo demografico». Si tratta di in fenomeno naturale: «Popolazioni più numerose richiedono maggiori risorse, cosicché le società densamente popolate o in rapido sviluppo tendono a proiettarsi all’esterno, a occupare territorio e a esercitare pressione su altri popoli demograficamente meno dinamici. La crescita della popolazione islamica è dunque un’importante causa di esasperazione dei conflitti emergenti lungo i confini del mondo islamico tra musulmani ed altre popolazioni». Collegato è, ovviamente, il fenomeno emigrazione: «La pressione demografica unita alla stagnazione economica stimola l’emigrazione musulmana nelle società occidentali e non musulmane in generale, determinando un inasprimento del problema dell’immigrazione. La contrapposizione tra culture, una in rapida espansione demografica e l’altra in fase di stagnazione, induce all’adozione di contromisure di carattere economico e/politico nelle società di ambedue i fronti». È la fotografia della situazione che sta vivendo oggi l’Europa.
Inoltre, «la Rinascita islamica ha dato ai musulmani nuova fiducia nella superiorità della propria civiltà e dei propri valori rispetto a quelli dell’Occidente». Sicché «il vero problema per l’Occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l’islam in quanto tale, una civiltà diversa le cui popolazioni sono convinte delle superiorità della propria cultura». Infatti, «i rapporti tra musulmani e le popolazioni di altre civiltà – cattolica, protestante, ortodossa, indù, cinese, buddista, ebraica – sono stati generalmente antagonistici. In qualsiasi punto dell’islam si guardi, i musulmani sembrano far fatica a vivere in pace con i propri vicini. Viene dunque naturale chiedersi se tale modello tardo-novecentesco di conflittualità tra gruppi musulmani e non musulmani valga anche per i rapporti tra gruppi di altre civiltà. I fatti dicono di no. I musulmani costituiscono circa un quinto della popolazione mondiale, ma negli anni Novanta la loro percentuale di coinvolgimento in atti di violenza tra comunità locali è superiore a quella di qualsiasi altra civiltà».
Altra novità degli ultimi decenni è la costante, progressiva riduzione di sovranità, funzioni e potere degli stati nazionali. Vi è una certa pervasività dei poteri locali: «Si è innescata una tendenza generalizzata che vede i governi statali perdere potere anche attraverso la delega di importanti funzioni ad autorità politiche regionali, provinciali e locali»; ma soprattutto di quelli sovranazionali: «Le istituzioni internazionali rivendicano oggi il diritto di giudicare e influenzare l’operato dei singoli stati all’interno dei loro stessi confini. In alcuni casi, soprattutto in Europa, gli organismi hanno assunto funzioni importanti che prima erano prerogativa dei singoli stati». Insomma, «i governi statali hanno perduto in considerevole misura la capacità di controllare il flusso monetario in entrata e in uscita dal paese e trovano sempre maggiori difficoltà a controllare quello di idee, tecnologia, beni e persone. In poche parole, i confini di stato sono diventati sempre più permeabili». Piccola osservazione: quello che si è detto vale per i paesi sottostanti l’Unione europea, non certo per quasi tutti gli altri, che hanno pienamente mantenuto la propria sovranità statale.
Come finirà l’Occidente, in piena crisi demografica, di crescita economica, di investimenti, di risparmio, ma, soprattutto, in totale smarrimento identitario? E affetto da due complessi psicologici (entrambi falsi): di superiorità economica perenne e di inferiorità culturale e di civiltà. In effetti, ne Lo scontro delle civiltà riecheggia la malinconica atmosfera da “tramonto dell’Occidente” che costituisce un refrain dell’ultimo secolo (uno per tutti, Oswald Spengler). Huntington produce molteplici esempi di civiltà scomparse: tutte loro non sono state capaci di difendersi perché non avevano più la volontà di lottare. E l’attuale Occidente è pervaso da autodisprezzo, oicofobia, autorazzismo, discriminazioni a senso unico verso famiglia naturale, lavoratori, maschi, bianchi, eterosessuali. Huntington elenca una serie di segnali di degrado morale collettivo dilaganti: i comportamenti antisociali, l’uso delle droghe, la violenza diffusa per futili motivi, l’aumento di divorzi e aborti, la crisi del volontariato e del comunitarismo, l’indebolimento dell’“etica del lavoro”, l’abbassamento del livello dell’istruzione e della cultura… Personalmente aggiungeremmo la quasi totale perdita dei valori di lealtà, amicizia, fedeltà, onestà, onore, coraggio, altruismo, del rispetto della parola data e dell’impegno assunto, del pudore, della riservatezza… E il crollo demografico…
Chiarisce lo studioso americano: «L’immigrazione è una potenziale risorsa di rinnovato vigore e di capitale umano, a patto che siano soddisfatte due condizioni: primo, che la priorità vada a persone capaci, qualificate ed energiche dotate del talento e dell’esperienza necessari al paese ospitante; e secondo, che i nuovi immigrati e i loro figli vengano assimilati alle culture del paese ospitante e dell’Occidente in generale». Sono passati più di due decenni da quando Huntington scriveva queste righe (e, si badi bene, parlava di assimilazione, non di integrazione o inclusione). Oggi possiamo affermare che l’immigrazione, specie per come è avvenuta e sta avvenendo in Italia, è principalmente un’enorme iattura, cui sono favorevoli solo gli speculatori (cfr. A chi i profughi? A noi!). In ultima analisi, a prescindere da profezie giuste o errate, da pruriti ideologici e pregiudizi di parte, Lo scontro delle civiltà resta e resterà a lungo un libro da leggere e studiare in quanto affascinante affresco storico, politico, culturale, lungo i secoli della Storia umana e le sue molteplici facce. E non politically correct.
La cartina dell’ultimo conflitto azero-armeno è di Emreculha (opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=94705994).
Rino Tripodi
(LucidaMente 3000, anno XV, n. 180, dicembre 2020)