“Quello è un raccomandato”: questa una delle frasi più in voga degli ultimi 100 anni, ad essere generosi con la storia, che è diventata vera e propria mansueta consuetudine, norma di vita e, forse, categoria filosofica, patologia psicosociale, alla quale si richiama in Italia, ma anche in tutto il mondo, una larga fetta di persone che abbiano intenzione di mettere i loro piedi in una casta sociolavorativa che non sia la loro. Un po’ per curiosità e un po’ vittime di una certa ironia, abbiamo fatto alcune considerazioni e qualche mese fa abbiamo posto qualche domanda ai lettori di LucidaMente…
La Casta – Anche nel 2009, parlare di Casta ha il suo senso, non solo per il libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, ma anche e soprattutto per la scoperta che, analizzando bene questa nostra amabile società contemporanea, ci tocca vivere in un periodo in cui, al contrario della raccomandazione, la parola mobilità sociale non è molto in voga, topos quasi sconosciuto, prassi diventata rarità. La mobilità sociale, quella che permette a una persona la scalata ai vertici della società, intesa come insieme di persone che assegna ai propri partecipanti un ruolo differente in base al proprio lavoro, al proprio valore e alle proprie scelte e inclinazioni; concetto figlio della democrazia, a sua volta della meritocrazia, oggi parrebbe venire solamente dopo la ben più famosa fortuna di essere raccomandati, di essere figli di, amici di o semplicemente preferiti da. Alla luce di tutto questo, la fiducia in un futuro di successo per i propri meriti e per le proprie competenze può essere considerata ancora una realtà o piuttosto un mito, come quello della pace o della libertà di stampa, che in verità è andato perso con il logorio della vita moderna?
Domande retoriche – Vi siete mai chiesti come sarebbe stata la vostra vita se il tanto agognato dottorato (“tutti parenti lì dentro, oppure conoscenti”, ci dice un lettore) lo aveste tentato con il cognome giusto o con l’opportuna benevolenza del professore giusto? Vi siete mai domandati cosa sarebbe accaduto se, quella volta che avete partecipato al concorso comunale per aspiranti giardinieri, invece di avere avuto i vostri dieci anni di giardinaggio, aveste avuto l’aiutino di qualcuno? O ancora, ma solo per concludere, cosa avete provato quando, dopo mesi o anni di lavoro, vi siete sentiti dire che dovevate ancora crescere e che era meglio che il ruolo di responsabilità venisse assegnato all’ultimo venuto? Avete mai ascoltato tutte queste considerazioni con la intima e serpigna consapevolezza che il vostro unico difetto sia quello di non avere un cognome abbastanza decorativo o di non essere abbastanza partecipe o rappresentativo di un determinato topos sociale o lavorativo?
Si fa, ma non si dice – Ci siamo domandati soprattutto una cosa: l’abitudine alla raccomandazione, aver fatto di lei, in quale modo, un abito oltre che sociale anche mentale, ha cancellato anche il senso della consapevolezza di chi la raccomandazione l’ha ricevuta? Ecco perchè nel nostro paese fioriscono, non si sa come, i raccomandati e aumentano coloro che dichiarano di non averne mai avuta una. Un caso curioso che ci ha spinto a condurre, accanto a una breve argomentazione, una piccola mininchiesta fra i nostri lettori: poche le domande, alle quali si è assicurato l’assoluto anonimato.
La nostra piccola inchiesta – Abbiamo chiesto ai lettori abituali, ma anche a quelli occasionali o trasversali, di qualificarsi per età e titolo di studio e abbiamo chiesto loro se, avendo un lavoro, avessero mai usufruito della comoda e non scritta istituzione della raccomandazione: le persone hanno aderito numerose e su un nutrito campione di lettori – una netta maggioranza di persone appartenenti alla fascia d’età fra i 25 e i 36 anni (37%), seguita dalla fascia 36-45 anni (25%) – è risultato che il 75%25 di loro ha un lavoro, mentre il restante 25% ha dichiarato di non avere attualmente un’occupazione. Il 78% dei lettori interpellati ha inoltre dichiarato di avere una laurea, mentre il restante 22% ha detto di non avere un titolo di studio accademico; fra questi ultimi il 15%25 ha dichiarato di aver conseguito un diploma. Il 78% degli interpellati ha dichiarato, inoltre, di non aver mai ricevuto i benefici di una raccomandazione, contro il 22% che ha invece dichiarato, a volte minimizzando con alcuni commenti, di aver fatto ricorso a tale “nobile” e millenaria istituzione sociale (antica quasi quanto la famiglia, e questo può dirla lunga). Seppur presi da un attacco di onestà, alla quale ovviamente crediamo, i lettori hanno anche dichiarato (84%25) di volere una raccomandazione (alcuni per se stessi e altri per i propri figli o nipoti), mentre uno zoccolo “duro e puro” (16%25) ha dichiarato che non vorrebbe mai una “segnalazione”, seppur commentando liberamente di riconoscerne la ineludibilità. Dalle domande sono emerse, grazie a commenti e spontanee confidenze, situazioni umane e lavorative nelle quali la raccomandazione si è spesso affiancata a parole come mobbing e depressione, insoddisfazione o sfiducia nel presente e nelle istituzioni.
La storia di una “nobile” tradizione – All’origine di questa inveterato e ormai, a quanto pare, endemico costume, l’italiano medio, aristocratico erede della stirpe italica, colui che non è mai stato raccomandato, che non dirà mai di avere avuto una raccomandazione o che, con un guizzo di originalità, ammetterà di averne avuta una, ma minimizzandola (“però era ben poca cosa”), può porre l’antica parola latina Cliens, che racchiude in sé il complesso rapporto fra cittadino svantaggiato, spesso proveniente dalla campagna o da fuori Roma, e un Patronus. Quest’ultimo, un signore ricco e potente, generalmente appartenente alla cerchia senatoria o monarchica, a seconda dei tempi e delle occasioni, decideva, in cambio di svariati servigi, di tipo pratico e pragmatico, politico o artistico, di proteggere e dunque patrocinare la causa del proprio Cliens, un membro della società privo di quei titoli atti a dotarlo delle potenzialità di godere di determinati benefici socioeconomici. Tale rapporto prevedeva nell’antica Roma una vera e propria sudditanza sulla quale si reggeva una buona parte della società. Esso si è evoluto col tempo nel rapporto fra Patronus e Cliens del sistema sociale bizantino, poi in quello medievale e, successivamente, in quello di tipo borbonico (o sabaudo, in base alle proprie preferenze) che si è evoluto, infine, nel sistema del clientelismo, o della raccomandazione, della nostra Repubblica (che Dio l’abbia in gloria!): dalle mani dei nobili alle mani di piccoli e grandi commessi del potere.
Il triplice rapporto – Questo triplice rapporto non si limita, tuttavia, a privilegiare una persona coinvolgendone altre due. Spesso finalizzata all’assunzione di una persona non per i suoi esclusivi meriti, la raccomandazione aumenta notevolmente la percentuale di probabilità che nei punti chiave della struttura lavorativa o sociale siano collocate persone prive di quegli strumenti che in un contesto più sano sono, in realtà, le discriminanti che permettono di selezionare gli individui “migliori” per quel determinato ruolo. In base a questo si può dire non solo che le colpe del raccomandante e del raccomandato si estendano a un gruppo più ampio di persone, ma che gli effetti di queste azioni danneggino l’intera società producendo disservizio, incompetenza e indebolimento sociopolitico.
Analisi e personaggi: disegni e problemi – Nella storia sono state tante le persone che hanno avuto a che fare con la raccomandazione e il sistema clientelare; da Dante, che lamentava l’ingratitudine di Firenze, propensa verso altre figure maggiormente “in voga”, a Giovanni Battista Guarini, che nell’opera Il pastor fido ha immortalato con vivacità di colori l’ambiente irto e scosceso della Corte, perfetta rappresentazione dell’attuale società, fino al politico e scrittore sardo Giovanni Battista Tuveri (1818-1887), considerato uno dei padri del pensiero federalista repubblicano, che, dimostrando eccelse qualità intellettuali, che lo porteranno a essere eletto deputato al Parlamento subalpino (I-V Legislatura), valente antigiobertiano e creatore della Gazzetta popolare e direttore del Corriere di Sardegna, rinunciò alla tesi dottorale in Giurisprudenza, mantenendo solamente il baccellierato, poiché, come riferito da Felice Uda, in un volume del 1888, “forse presentiva di aver contrarii i voti dei professori dell’accademia – dall’intelligenza cretina – i quali erano così imbevuti dei pregiudizi di casta e di sistema, che mal tolleravano di essere contrariati” (Felice Uda, G. B. Tuveri, Tipografia A. Timon, Cagliari, 1888). Tuveri, autore nel 1851 del famoso trattato intitolato Del diritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi, amico di Cattaneo e Mazzini, non solo non rappresenta un’eccezione, ma simboleggia oggi anche quanti sprovvisti di aderenze presso chi conta cerchino di far valere le loro qualità e le loro opinioni oltre il sistema di casta.
Clientelismo & Democrazia malata – Come sostenuto da Philip Keefer nel saggio Clientelism, credibility, and the policy choises of young democracies (clicca qui), le “nuove” democrazie, caratterizzate da una classe politica impreparata e incapace di rendere credibili le loro proposte di governo, “leads them to prefer clientelist policies” (“sono portati a preferire politiche clienteliste”). Queste democrazie, contraddistinte da una politica sociale insoddisfacente (diritti civili, scuola ed educazione) e ancorata ai vecchi schemi, incentivano la tensione sociale, abbandonano l’ambito del consenso, che si gioca anche sul campo della libera informazione nei mezzi di comunicazione, e adottano sistemi coercitivi sempre più ampi sconfinando nel campo proprio dei sistemi antidemocratici. Infatti il clientelismo va di pari passo con la coercizione, l’intimidazione, il sabotaggio e, in ultima ratio, la violenza (vedi: ostruzionismo burocratico, università e istituzioni pubbliche, discriminazione, mobbing, bossing).
Abbattere i cattivi governi – Un sistema del genere si riflette nelle grandi come nelle piccole cose, una democrazia malata preferisce il clientelismo, delega ai suoi commessi uno schema malato e produce un tessuto sociale profondamente sofferente. In poche parole, un vertice malato proietta sulla società un’ombra contaminata, un’ombra che ci dice molto chiaramente che “non c’è democrazia, ma partitocrazia, oligarchia, vuoto di potere, arroganza del potere, prepotenza e impotenza. Non esiste Stato di diritto, ma arbitrio di regime” (La peste italiana , a cura del Gruppo di iniziativa di Satyagraha 2009 per lo Stato di diritto e la democrazia cancellati in Italia). Finché non cambierà il vertice e si abbatterà il cattivo governo (si parla di una tendenza e non di una singola istituzione), sarà inutile pretendere un cambiamento di massa a livello etico.
La questione morale: un’emergenza del paese: Donadi (Idv) – A proposito della raccomandazione e del clientelismo abbiamo interpellato anche Massimo Donadi, capogruppo alla Camera per l’Italia dei valori:
Da una parte senso dell’ingiustizia, dell’abbandono e della solitudine, e dall’altro una mancanza di approvazione, di consenso, che genera azioni sempre più lontane dalla sfera democratica. È ancora possibile secondo lei invertire questa tendenza? è possibile ancora riconoscere la necessità di abbattere i cattivi governi con la forza della politica?.
Donadi ci ha risposto: “Credo che nel nostro paese una delle emergenze è proprio quella della “questione morale”: per questo crediamo sempre di più nella battaglia dell’Italia dei valori per un paese pulito e onesto, nella convinzione che debba essere proprio la politica a dare esempi e coerenza. Non si può combattere la mafia ed eleggere i condannati per mafia o fare sottosegretari indagati per mafia. Non si può chiedere onestà, se il presidente del Consiglio è imputato (ma il processo è sospeso grazie alla legge Alfano) di atti disonesti”.
Clientelismo in Europa e in Italia – Nasce inoltre nei paesi della Mitteleuropa e di area inglese un nuovo sistema di guardare alla raccomandazione, un pensiero che sostiene come il sistema clientelare possa essere perlomeno aggirato attraverso la sua più profonda conoscenza. Rapportare la realtà europea alla realtà italiana appare oltremodo sconveniente, poiché il tipo di clientelismo italiano appare avulso dall’internazionalizzazione delle selezioni dei paesi europei o di area angloamericana e radicato in un contesto in cui la borghesia non pare aver avuto alcuna ingerenza nella ridefinizione di un paese, lasciando alle vecchie caste il tempo e lo spazio sociale per imprimere alla nuova società un trend che ricalca il passato, con i suoi recinti e i suoi commessi del potere.
I “Vicerè”: un paese senza borghesia – L’Italia è dunque un paese senza borghesia storica, arrivato all’epoca di Internet senza passare attraverso un vero cambiamento sociale, il paese dei processi storici interrotti. Ecco perchè, dipendendo la raccomandazione in Italia, specialmente al Sud, dal cognome, dalla frequentazione fra famiglie e dai favori fra conoscenti, sarebbe impossibile per una persona discriminata aggirarne gli effetti discriminatori studiandone semplicemente il meccanismo: nessun corso preparatorio servirebbe infatti a valicare gli effetti del gattopardismo risorgimentale che di fatto ha messo in piedi un paese formato da un unico grande popolo, sul modello dei braccianti terrieri, unica immensa folla indistinta, e una eterogenea costellazione di “Vicerè” che, per sistemare figli, parenti vari, amanti, amici e altre persone di buona volontà (le università in prima linea, si dice, piene di ignoranti e raccomandati), ha bisogno di una messa in scena concorsuale che, come ha ricordato il giornalista Davide Carlucci, su la Repubblica (clicca qui), costa allo Stato una media di 20mila euro.
Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto mentre all’interno sono pieni di rapina e d’intemperanza (Mt 23, 13-32).
L’immagine: particolare de Il trionfo della morte (1562-1563, Madrid, Museo del Prado) di Pieter Bruegel (Breda, ca. 1525-1530 – Bruxelles, 5 settembre 1569)
Matteo Tuveri
(LucidaMente, anno IV, n 45, settembre 2009)