Il tema dei migranti sta lacerando l’Italia e l’Europa, ma, al di là delle posizioni sui porti aperti o chiusi, perché non chiedersi cosa ne pensano gli africani?
«Accoglienza», «invasione», «porti aperti», «porti chiusi»: da un po’ di tempo il dibattito pubblico nel nostro paese è in larga parte occupato da uno scontro durissimo e apparentemente senza via d’uscita. Da un lato vi sono i partigiani dell’accoglienza, forse interessati dal business che vi ruota attorno, dall’altro quelli dello stop all’immigrazione, probabilmente in cerca di facili consensi elettorali.
La questione è molto complessa, ma viene spesso lasciata in mano ai soli professionisti della comunicazione. Il risultato è una guerra aperta e senza regole fra i sostenitori dell’una o dell’altra posizione, la cui vittima eccellente è la possibilità di comprensione del problema. Le tesi dei primi, così come quelle dei secondi, non ammettono mediazioni reciproche. L’arena politica è invasa da platee di urlatori, il cui compito è quello di conquistare, nel più breve tempo possibile, il mercato televisivo ed elettorale. Le soluzioni semplicistiche, legate all’apertura delle frontiere ai richiedenti asilo, o alla chiusura dei porti, non fanno che alimentare l’aspro scontro fra cittadini-spettatori, oggetto passivo della diatriba. Tuttavia, come già accennato all’inizio, la verità è che ciò che generalmente importa ai primi è il ritorno economico, tramite la delega delle politiche di accoglienza alla giungla del terzo settore, mentre ai secondi non interessa che qualche ora di esposizione mediatica.
Come rileva la scrittrice italosomala Igiaba Scego, entrambe le prospettive sono, a ben guardare, vuote e speculari e risulta indispensabile, in questo contesto, cercare altrove, seguire altri sentieri. Intellettuali e studiosi africani si occupano da tempo della questione, ma nel nostro paese non ne giunge voce, se non in minima parte. Una delle più autorevoli posizioni in tal senso è quella di Abdelmalek Sayad, che a partire dagli anni Settanta prende atto dell’ambivalenza del fenomeno migratorio degli algerini in Francia, formulando il concetto di «doppia assenza». La condizione dell’emigrato è segnata da una scissione fra la propria identità perduta e quella del paese d’arrivo, considerata come irraggiungibile.
Il problema identitario è, altresì, al centro della riflessione di Frantz Fanon, padre del pensiero anticoloniale. Solo una forma di confronto radicale, non pietistica, e libera dalla «oggettificazione» dell’altro può aprire a un «nuovo umanesimo», frutto di un processo di incontro-scontro reale volto al riconoscimento reciproco, in grado di superare sia il razzismo di stampo reazionario, che il postmoderno livellamento delle differenze. In tempi recenti è il filosofo camerunese Achille Mbembe a fornire gli spunti più interessanti. La risposta europea alla crisi si caratterizzerebbe per il massiccio ricorso a forme di «necropolitica». Scontri interetnici e violenza sono, in tal senso, funzionali all’applicazione, all’interno dello spazio europeo, di strategie di controllo sulla falsariga del modello coloniale, volte alla legittimazione di uno stato d’emergenza permanente.
La via d’uscita non è, tuttavia, delegata alla sola Europa, ma è, piuttosto, l’Africa a doversi scuotere, senza «vittimismi», per andare oltre l’impasse e aprire alla possibilità di superamento della guerra fra ultimi in una prospettiva critica a livello globale. È evidente come né la politica dei respingimenti in Libia, né quella dell’ingresso coatto dei migranti nel sistema d’asilo europeo, prendano in considerazione punti di vista del genere. Il problema ha radici profonde e pone questioni focali, che si snodano a partire dal tema dell’identità. Solo una politica del riconoscimento reale può operare la mediazione necessaria e, forse, ciò muove proprio dall’ascolto delle voci provenienti dal Sud del mondo, con le quali l’Europa non ha mai fatto seriamente i conti.
Le immagini: carcasse di barconi a Lampedusa; Achille Mbembe.
Nicola Lamri
(LucidaMente, anno XIV, n. 162, giugno 2019)